Il più citato e lodato dei presunti meriti delle piattaforme digitali è quello di avere, così si dice, dato rappresentanza a gruppi sociali e persone che fino a pochi anni fa non ne avevano: abbiamo, insomma, passato il microfono a chi finora non l’aveva mai avuto fra le mani. Un’immagine in parte vera, ma che nella sua essenza risulta fuorviante, perché nella grancassa dei social a parlare non sono mai direttamente i chiamati in causa, ma infinite variazioni di rappresentanti, portavoce e cosplayer dell’ultimo minuto, richiamati dall’odore di engagement del tema divisivo di cui intestarsi la discussione.

Negli ultimi giorni questo tema divisivo è diventato, in modo raramente così drammatico, il conflitto arabo-israeliano: chiunque abbia aperto anche per sbaglio un giornale o un social media sa che in Israele e Palestina le vittime si contano già a migliaia e le soluzioni diplomatiche appaiono quanto mai lontane. In questo contesto, com’era prevedibile, le piattaforme si sono scisse in squadrette urlanti raccolte attorno alla loro bandierina di riferimento: filo-israeliani in difesa dell’«unica democrazia del Medio Oriente» e filo-palestinesi che denunciano un «genocidio» già in atto a Gaza ancora prima che si manifesti nella realtà.

Un panorama triste, confusionario e che, soprattutto, soffoca le voci dei protagonisti, anteponendogli questioni di etichetta, di pigra appartenenza e di adesione superficiale a questa o quella prospettiva sul conflitto. Ed essendo quello che stiamo vivendo un periodo storico molto sfavorevole alle zone grigie, quest’ansia di schierarsi «senza se e senza ma», come da non casualmente popolarissimo slogan della bêtise contemporanea, si traduce in una semplificazione del proprio posizionamento rispetto alla realtà di una guerra complicata e senza Buoni e Cattivi divisi da linee nette.

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