In Alice nelle città il protagonista Philip Winter (Rüdiger Vogler), invece di scrivere un reportage sugli Stati Uniti, scattava una serie di Polaroid, suscitando l’ira dei suoi committenti; ma era lui stesso a lamentarsi di queste foto: “Non mostrano mai quello che hai visto veramente”. Era il 1973, e il quarto lungometraggio di Wim Wenders folgorò il cinema occidentale (in Italia arrivò qualche anno dopo). Era un film metalinguistico, forse già postmoderno, che rifletteva sulla riproducibilità (o non riproducibilità) della realtà. Un film pieno di media e di schermi. Post-Antonioni, certamente, ma con una sensibilità nuova nel mostrare quella che non si chiamava ancora globalizzazione, ma qualcuno definiva già omologazione: omologazione dei paesaggi e dei luoghi, o meglio dei non luoghi (motel, mezzi di trasporto, aeroporti), per usare un’altra parola anacronistica. Un grande film ancora oggi, nel suo bianco e nero sgranato, che parlava anche dello sfaldarsi del mito del viaggio e della generazione on the road, della fine di ogni altrove.

In Perfect Days il protagonista Hirayama (Koji Yakusho) usa una macchina fotografica analogica per scattare foto ad alberi, con una pellicola in bianco e nero. Non guarda nel mirino; saprà se ha ripreso qualcosa di soddisfacente soltanto quando ritirerà le foto che ha portato a sviluppare. Che cosa significa tutto ciò, nel 2023?

Dopo una quantità di film che non hanno lasciato traccia, Perfect Days ha riportato Wenders all’attenzione non solo della critica (in genere entusiasta), ma anche del pubblico medio, acculturato ma non necessariamente cinefilo (il pubblico che associa Wenders essenzialmente a Il cielo sopra Berlino e, quando va bene, a Paris, Texas). E si colloca in un genere spesso frequentato dal cinema d’autore: il regista straniero che va a girare in Giappone. Wenders era stato tra i primi, nel 1985, con Tokyo-Ga, che aveva fatto conoscere il cinema di Yasujiro Ozu a migliaia di giovani occidentali. Come Amir Naderi (Cut, 2011), Abbas Kiarostami (Qualcuno da amare, 2012) e Werner Herzog (Family Romance, LLC, 2019), Wenders usa solo attori giapponesi. Ma perché il Giappone? Perché laggiù le cose della vita quotidiana, anche le più umili e minute, appaiono più eleganti, precise, formalizzate. Perché è l’impero dei segni, come diceva Roland Barthes in un libro che sarebbe interessante rileggere con la sensibilità odierna. Perché in questo mondo algido possono succedere cose molto strane e i personaggi possono rincorrere ossessioni assurde senza che nessuno si stupisca; e i drammi possono scoppiare in modo imprevedibile. Sempre che scoppino, perché spesso rimangono compressi. Come quello del protagonista di Perfect Days, del cui passato non sappiamo nulla; dopo un’ora e mezzo apprendiamo che ha una sorella ricca e un padre che non vuole vedere. Perché abbia scelto di diventare un addetto alle pulizie dei gabinetti pubblici non ci è dato saperlo; ma siccome siamo in Giappone, accettiamo che succedano cose del genere.

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I luoghi comuni che ho elencato sul Giappone parlano del bisogno che gli occidentali (e non solo) hanno di un altrove estetizzato, dove tutto sembra più essenziale. Un altrove dove i gabinetti pubblici sono così high-tech, così puliti e hanno un’architettura così creativa che quasi non pensiamo mai che Hirayama faccia un lavoro sgradevole. Poi,

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