Qualcosa che somigli a una corsa comincia molti minuti dopo i primi passi.

Alle otto siamo entrati nelle griglie, abbiamo camminato lenti sotto gli schermi alzati al cielo a riprendere il rombo di aerei come stelle filanti. Ora dopo il rombo urliamo tutti insieme con lo speaker, saltiamo ai versi di Dove si balla. Si parte ma non si avanza. Alcuni si fanno largo all’Altare della patria, il fiume non straripa ancora, e al Campidoglio si ferma di nuovo. C’è la banda dell’aeronautica che si sfiata sulla scalinata – il tempo scorre noi no, prendiamo tempo – ancora applausi, grancasse, applausi, i runner ridono chiacchierano salutano. Non si passa, non si filtra – per almeno due chilometri quindicimila persone sono una massa aizzata ma senza direzione. Si sgomita e si inciampa fino a Porta San Paolo. E vorrei ricordarlo il serpente che si snoda, che a un certo punto si stiracchia. Ma non avviene, nessuno respira ancora regolare: a Garbatella, cinque chilometri dopo, ancora eccitazione, sorpassi lievi, manovre goffe, scusa ti ho chiesto scusa. È mai possibile si chiede il debuttante – io sono il debuttante – è mai possibile che nessuno risparmi un fiato.

Sei sempre stato un maratoneta, mi hanno detto per convincermi. Sarebbe la mia prima. Già sempre lo eri. Ma io ho corso sempre e solo per smorzare l’emicrania. Sei già sempre gettato nella corsa. Obbedisco Maestro. Ma sia maledetto martin heidegger e ininterrotti i suoi sentieri. E allora corro.

Ogni chilometro è segnalato da una bandiera credo bianca – la cercherò per tutto il tempo, l’anticiperò di fantasia. I gps lanciano avvisi e suoni e comincia una cosa che chiameremo conta. All’inizio si contano le sensazioni. Si contano le stranezze – quelli vestiti eccentrici da centurioni le squadre i discorsi assurdi i vecchietti di viale Marconi davanti ai bar. Si conta la quantità infinita di plastica. Le migliaia di bottiglie di plastica sorseggiate appena e riversate al suolo a volte lanciate che rotolano e poi otturano gli scoli. Ogni rifornimento è strage di bottiglie. Allora le scope si affrettano, cacciano le bottiglie dalla strada. Per distrarti per non pensare a quanto manca conti i rifornimenti i rifiuti. Conti tutta la plastica del mondo nascosta sotto il tappeto della città.

Al lungotevere Gassman i maschi si nascondono tra i cespugli a svuotarsi. 

Ha scritto il figlio di Gassman in un tweet che non si aspettava di sentire così tanta musica di merda durante la maratona. Ha chiesto se non bastava correre. Credo di no: tra mille marchi mille sponsor mille pop-up che ti si aprono ovunque prima e dopo, il durante è solo corsa e follia. E la musica è il metodo della follia. Mentre correvo e contavo – i rifiuti i chilometri ogni nuovo inizio – spuntava musica dal nulla. L’inizio lisergico della banda aeronautica, le fanfare a Piazza Albania. Una che a Prati urlava stornelli romani correndo – era il chilometro ventitré. Ancora a Prati, una coppia che suonava blues in una piazza di cui non ricordo il nome perché a un certo punto perdi i pezzi. Ma ricordo che l’uomo diceva Honky Tonk Women. Ma prima, molto prima, ricordo un’altra selva di fiati a Ponte Marconi e poi due africani a percuotere la pelle dei bonghi con una violenza mai vista e un ritmo mai udito e credo dal Tevere di aver sentito un boato. Dalla folla il boato. E un fracasso di capoeira ai Musei Vaticani. E due linee di majorettes truccate, majorettes silenti a Piazza Cavour. Passi ansimando e loro tacciono, forse sei sott’acqua e loro fuori. Forse tacciono apposta.

E ci sono eccome le ali di folla. Sono turiste o familiari o gente che grida – pochi romani. Cartoni scritti a penna. Occhi tuffati nei telefonini. Ma gridate. Fate come quella che a viale Giulio Cesare urla voi non capite quanto siete belli tutti.

Prima della metà della corsa ecco San Pietro e i colleghi spagnoli che corrono e ridono e chiedono a uno che l’insegue, a uno che corre, di fotografarli mentre corrono all’indietro. Su via della Conciliazione loro corrono retrocedono ridono e il cupolone è dietro le spalle. Pensiamo di essere soli nella corsa e invece no. Facci una foto mentre sorridiamo correndo a Roma come gamberi.

Lo avevano detto: Roma nord sarà la prova. Roma nord è l’origine e l’origine è la mèta e tu la riconoscerai. E allora a Roma nord cala il silenzio. C’è uno svenuto e circondato. Cade ogni musica, non c’è neanche una banda. Da Ponte Milvio hanno organizzato il silenzio. Se la maratona quella vera comincia al chilometro trenta, già da venti minuti non senti più nulla. La gente attorno diminuisce, ogni ala sparisce. Per migliaia di metri non c’è audio, solo qualche urlo di pazzi da dentro la corsa che ancora hanno energie in sovrappiù e dicono cose.

«Avrai visioni» e sarà il segnale. Avrai la vista ottenebrata: allora mangia banane non rifiutare i sali prenditi tutto quel che ti danno. Le spugne sono importanti inumidisci il cervelletto la testa bagnala non importa quanto lasciala fradicia: perché avrai le visioni. E al viale della Moschea dall’Acqua acetosa mentre le gambe all’improvviso si fanno di marmo e pesano dieci chili in più su quella salita che di solito è minima, al viale della Moschea io la visione l’ho avuta. Tagliavo il traguardo dei trenta chilometri che vuol dire altri dodici da fare con dieci chili per gamba in aggiunta, passavo quel traguardo e un tipo alto e barbuto e sorridente tendeva arrosticini sullo spiedo da oltre le transenne e diceva fanno bene prendetene tutti. E sentivo l’odore di grasso che cola tutto l’Abruzzo in un’unica zaffata di carne croccante il giardino dell’eden i ruscelli scorrere i frutti aprirsi finché una voce non grida forza che adesso è discesa.

Le voci, le voci anonime di chi incoraggia. O quelle gracchianti di chi disturba il ritmo l’ascesi pura che diventa il fondo lungo, lunghissimo quando accade, la conta infinita di mille passi che forse un chilometro lo fanno. Vai avanti. A un certo punto nell’ocra anonimo poi grigio del Villaggio Olimpico a quel punto ti manca la folla. All’Auditorium non c’è nessuno, un odore di cavalli a Villa Glori, l’impatto dell’asfalto sulle gambe che ormai sono blocchi unici e non si piegano più. Mancano le voci.

Ancora il lungotevere, un sottopasso enorme come una balena buia, affondiamo e riemergiamo ed ecco tornare le voci. Perché il chilometro è il trentacinque, è di nuovo il centro e ricominciano i sampietrini. Portiamo le gambe i blocchi di marmo sui sassi di Pietro. E non è più corsa, è una faida minerale. Il corpo fa la secessione. Sopra – la testa che è fradicia, la bocca che passa al cervello il gel la caffeina per l’ultimo sforzo, il naso che prende a colare, le braccia ancora vive. Sotto – i blocchi di pietra che sbattono su pietra e dicono al cervello basta. Avanti non si va.

Allora il cervello inventa. Prima ricama su una frase in francese che una ha esposto su un lenzuolo a Testaccio, era prestissimo, ma ora torna. La douleur n’est qu’une information. Ne ignori l’origine, provi a ricordarti che ne hai riso due ore fa. Ma ora la gente si tocca gli adduttori. Alcuni zoppicano. Altri sono ormai fermi dietro l’Ara Pacis. Il dolore è solo un’informazione: procede per gradi, e si può sempre salire.

Avrai visioni. Il cervello vede, il cervello canta, ora ti porta in trionfo, sei al traguardo, puoi scioglierti, puoi aprire i flussi, i rubinetti, gli occhi possono chiudersi. E non è vero niente, mancano ancora chilometri, non siete neanche a Piazza di Spagna, i sampietrini restituiscono ogni colpo e tu non puoi permetterti la commozione mentre corri. Puoi solo controllare la sfida minerale, che ogni passo sia uguale. Solo l’uguaglianza può portarti avanti.

È fatta i denti stringi i denti. Piazza Navona è la speranza dell’asfalto appena fuori. Ancora musica dance senza senso. 

L’arrivo è appena dopo, credo sia rosso, muoviamo braccia: il Colosseo vuoto in fondo accoglie pianti mistici di noi mentre l’acido lattico prende il potere.