Che differenza c’è tra Ricky Gervais (il cui ultimo monologo, Armageddon, è su Netflix dal 25 dicembre 2023) ed Emil Cioran? Entrambi dicono che corriamo verso la morte e che questa non darà alcun senso alle nostre vite. Solo che Gervais lo dice da un palcoscenico dove centinaia di spettatori ridono e lo applaudono; e pronuncia queste tristi verità con un lessico triviale, dove le parole fuck e shit sono più frequenti che nei dialoghi di un film di Tarantino. 

Vedere questi spettacoli con le risate del pubblico (vere, finte, amplificate, editate dal sound designer) fa uno strano effetto. Un effetto fastidioso, da sit-com: lo spettacolo mi dice cosa fa ridere, mi avverte quando devo ridere. Solo che ’sto tizio parla di morte, e la gente ride. È una classica apocalisse contemporanea. D’altra parte, si sa, si ride per non morire, per esorcizzare le paure. E i veri comici parlano sempre di morte ­– Antonio Rezza, per esempio. Ma c’è altro: parlare di morte serve a Gervais per alzare il tiro, per rivendicare l’appartenenza a una tradizione alta. È una stampella culturale che lo autorizza a infrangere i tabù e fare battute deplorevoli su disabili, gay, migranti, persone sovrappeso e via dicendo. Chi parla di morte non può essere superficiale, e quindi gode di impunità e libertà. Potrebbero parlare di morte Pio e Amedeo?

Se Ricky Gervais fa sempre notizia, dà scandalo ed è considerato un maître à penser da una platea globale credo un po’ più giovane di me, non è però perché parla di morte: è perché fa a pezzi il politically correct. In Armageddon Gervais, riprendendo un tormentone recente ovunque diffuso, dice, più o meno: “Non se ne può più della cultura woke, non si può dire più niente, non si possono usare parole come queer handicapped”. Che differenza c’è, allora, tra Armageddon e il famigerato monologo di Pio e Amedeo sull’uso di parole come “negro”, e “ricchione”, andato in onda su Felicissima sera il 30 aprile 2021?

Sono andato a rivederlo.

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