Entrai in contatto con Aldo Lado, la prima volta, nel lontano 1994. Avevo faticosamente rintracciato un suo recapito telefonico e, armatomi di coraggio, gli telefonai. Questo regista, il cui nome era l’anagramma del cognome (che cosa strana…), per me era allora, essenzialmente, l’autore del film più angosciante e allucinante che avessi mai visto, La corta notte delle bambole di vetro. Un apologo-metafora sul Potere, ambientato a Praga, il cui protagonista, un reporter americano ritrovato senza vita in un giardino pubblico, giace, in realtà, in uno stato catalettico, indotto, tramite occulte manovre, da una consorteria di notabili che, alla fine, si sbarazza definitivamente di lui nel corso di un’autopsia pubblica. Un innesto alla Billy Wilder del Viale del tramonto, su un meccanismo che altri ebbe giustamente a definire “polanskiano”, con al centro un uomo sprofondato e paralizzato nel “sonno freddo”, che gli consente solo di pensare e di rivivere, in retrospezione, gli eventi che lo hanno condotto sul tavolo dell’obitorio. Tempestai di domande Lado, quel giorno, e lui, squisitamente, cercò di soddisfare tutte le mie curiosità. Ne nacque una conoscenza che, con il tempo, sarebbe diventata amicizia.

A Venezia, dopo gli studi liceali, aveva cominciato a occuparsi di disegni animati, finché, ventenne, si trasferì a Parigi, all’avventura

Fiumano, nato nel 1934, ma cresciuto a Venezia, Aldo fu uomo, e artista, per il quale l’aggettivo “eclettico” non appare assolutamente sprecato. La triangolazione essenziale della sua esistenza ebbe come coordinate, non solo geografiche ma culturali nel più largo dei sensi, la città lagunare, la Francia e quindi Roma. A Venezia, dopo gli studi liceali, aveva cominciato a occuparsi di disegni animati, finché, ventenne, si trasferì a Parigi, all’avventura, in cerca di ingaggi nel mondo del cinema, sebbene non avesse mai messo piede su un set. La fame, l’intraprendenza e la fortuna lo portarono a incrociare una coproduzione franco-italiana, Le couteau dans la plaie, di Anatole Litvak. Era poco più di uno stagista, ma si sapeva muovere bene, tanto che il regista lo notò: si ritrovò promosso a primo aiuto e finì per curare tutta l’edizione del film, il che gli diede modo, sul campo, di impratichirsi di ogni comparto della macchina-cinema. Da Litvak a Marcel Carné (in Du mouron pour les petits oiseaux ebbe il compito di gestire un ingovernabile Franco Citti nel cast) e poi, dalla Francia, machine arrière in Italia, quando gli si offrì l’opportunità di seguire Il giardino dei Finzi Contini, nella fase in cui era ancora Valerio Zurlini in predicato di dirigerlo. Arrestatasi la lavorazione, Aldo si buttò nel cinema guerrigliero, popolare, dei western-spaghetti, come aiuto di Maurizio Lucidi, per il quale avrebbe poi sceneggiato un bel giallo, La vittima designata. Ebbe sempre grande facilità di scrittura, Lado, prestando la propria opera anche come “negro”, pagato per non figurare: il caso più eclatante, quello dell’Uccello dalle piume di cristallo, di Dario Argento, nato da una sua idea. Tra i vari casi della vita, in quel periodo all’inizio degli anni Settanta (nelle more del cinema, gli capitò di sbarcare il lunario anche vendendo enciclopedie porta a porta), fu importante l’incontro con il produttore Giovanni Bertolucci, che lo volle come aiuto del fratello Bernardo per Il conformista – e grazie ad Aldo, Kim Arcalli, veneziano, entrò allora nell’orbita di Bertolucci.  

Aveva un’arte del porgere cinematografico molto calibrata e mai casuale

L’esordio nella regia, appunto con La corta notte delle bambole di vetro, avvenne sempre nel 1970: scritto perché lo dirigesse Lucidi e inizialmente pensato da girarsi in Sardegna, quindi spostato nella Grecia dei colonnelli e infine contestualizzato oltre cortina, con il titolo originale Malastrana (dal nome di un quartiere di Praga), che divenne La corta notte delle farfalle e che la distribuzione volle modificato (incongruamente, poiché nella storia non compaiono “bambole di vetro”, ma l’immagine suonava di richiamo) in quello definitivo. Fu un debutto malgré lui («Avrei felicemente continuato a fare solo l’aiuto e lo sceneggiatore»), che mise però subito in luce un regista abile nel condurre con saldezza un racconto e, soprattutto, capace di danzare sul discrimine tra il concreto e l’astratto. Aldo muoveva sempre da un’osservazione precisa e icastica del reale (spesso ai limiti della crudeltà e della crudezza), ma aveva il grande dono di tradurre qualunque considerazione, ideologica, sociologica o politica che fosse, in un linguaggio cinematografico fluido e aereo, disancorato dalla pesantezza e dalla grevità del proclama. Ciò, a prescindere dal genere frequentato. Che narrasse di un prete pedofilo e assassino, nel suo secondo giallo, Chi l’ha vista morire?; che prendesse spunto dal romanzo di Giuseppe Berto La cosa buffa, per tracciare, nel film omonimo, il ritratto di un giovane ignavo, un tiepido incapace di decisioni; che si aggirasse – con enorme successo di pubblico, peraltro – nei territori del feuilleton più truce, con La sepolta viva (dal Patira di Raoul de Navery, alias Madame Chervet, nata Marie-Eugenie Saffray); che scendesse a patti commerciali finanche con la commedia speziata di erotismo, con La cugina; o che calasse i fendenti più sanguinari e violenti in L’ultimo treno della notte, Lado tenne sempre la rotta al di qua dell’ovvio e del volgare. Aveva un’arte del porgere cinematografico molto calibrata e mai casuale e raramente incorse in scivoloni, specie nella parte più fulgida della sua carriera cinematografica, che si dipanò tra gli anni Settanta e il principio del successivo decennio, quando gli capitò di adattare anche il Moravia della Disobbedienza. A fronte dei quindici lungometraggi diretti tra il 1970 e il 2012, decine sono i soggetti, i trattamenti e le sceneggiature che Lado sviluppò senza che arrivassero a materializzarsi sullo schermo (di recente, aveva curato un volume che raccoglie tali incompiute: I film che non vedrete mai), tra i quali va almeno ricordata la primissima redazione, firmata insieme a Pupi Avati per la Euro, di quello che sarebbe diventato il Salò di Pier Paolo Pasolini. 

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Grande appassionato e collezionista di letteratura, pittura e scultura, disseminava le proprie opere di riferimenti colti ma mai ostentati. Nella Corta notte…, per esempio, si avvalse della collaborazione dell’artista cileno Sebastian Matta, usando come oggetti scenici alcuni suoi dipinti surrealisti, nonché la statuetta di un demone-farfalla, rimasta l’immagine feticcio del film. Le matrici letterarie alla base di diversi lavori di Lado, talvolta furono casuali (il romanzo di Ercole Patti stava già nelle disponibilità della produzione che gli commissionò La cugina e che ne aveva acquisito i diritti, sebbene poi Lado, in sceneggiatura, ne ribaltasse molti presupposti), ma in gran parte dipesero dalla sua cultura onnivora e dall’aderenza di certi fatti romanzeschi alla vita vissuta: nella Cosa buffa di Berto, per esempio, aveva trovato diverse ragioni per sovrapporre la propria esperienza e la propria indole, del giovane veneziano neghittoso che era stato, a quella del protagonista del libro e quindi del film. In uno dei molti impegni per la televisione che punteggiarono la seconda parte della sua carriera, Il prigioniero, partì da Il duello di Anton Čechov e successivamente ridusse a misura di film-tv La città di Miriam di Fulvio Tomizza. Attingeva alla letteratura non certo per bisogno di una sorta di certificazione autorevole, ma perché una indefessa curiosità lo spingeva a cercare ovunque estri e spunti. Nei libri come nella vita che, diceva, è la più grande fonte di ispirazione. Ebbe a svelarmi che il primo germe della Corta notte… gli era nato da quel che accadeva in un certo periodo in Italia, quando giudici e magistrati scomodi venivano puntualmente relegati in prefetture sperdute e decentrate. Venivano “messi a dormire”. Immagine che lui tradusse, letteralmente e metaforicamente al contempo, nella riduzione in catalessi del personaggio principale del suo film.    

Aldo era un grandissimo narratore, in grado di dissertare per ore, fluvialmente, partendo da un punto qualsiasi dell’universo, del cinema e non solo

Io penso che il peggior servizio che si possa rendere all’opera di Aldo Lado sia quello di cedere, come spesso è stato fatto, alla tentazione di rivalutarne ogni più riposta ansa, innalzando gli ingaggi puramente alimentari e che il regista per primo, con il realismo e la spietatezza che lo contraddistinguevano, riconosceva come tali, al livello del “memorabile”. Da L’ultima volta a Rito d’amore (che ricostruiva la vicenda del giapponese Issei Sagawa, il quale aveva ucciso una compagna di studi a Parigi e si era poi nutrito delle sue carni), al gruppo dei polizieschi che girò all’inizio degli anni Novanta, e ricomprendendo anche un film mimetico di Guerre stellariL’umanoide, del 1979, Lado si limitò a svolgere i temi dati, correttamente. In camera caritatis dava a essi la giusta tara, anche se nelle pubbliche occasioni si divertiva poi a valorizzarli con aumentazioni che onoravano il suo gusto per la celia e per il paradosso. Perché Aldo era un grandissimo narratore, in grado di dissertare per ore, fluvialmente, partendo da un punto qualsiasi dell’universo, del cinema e non solo. Alla Francia, sua seconda patria e alla quale periodicamente tornava (ebbe casa a Parigi per anni), si volse una volta terminati i giochi cinematografici in Italia, dedicandosi a incarichi di produzione, soprattutto nell’entourage di Vera Belmont. È una parte, questa, tendenzialmente sommersa della carriera di Aldo, ma non poco interessante e ricca di aneddoti che la sua autobiografia (di imminente pubblicazione) divulgherà. 

Non posso non concludere questo ritratto di Aldo (in cui ho necessariamente sacrificato tutta la sezione finale della sua esistenza che è stata all’insegna dell’attività di scrittore, di romanziere e, più specificamente, di giallista, quindi riappropriandosi delle radici, in senso lato, letterarie che sempre lo distinsero) senza menzionare l’ultimo film da lui diretto nel 2012, Il Notturno di Chopin. Un lungometraggio che Lado si autoprodusse e che si batté come una tigre per realizzare, raccontando l’odissea di una bimba rapita da un bruto, tutto svolto dal punto di vista della piccola vittima. Ebbi la fortuna di stare su questo set, con tanti altri amici di Aldo, interpretando anche il ruolino di un prete, alla guida di un corteo funebre. Ed ebbi la fortuna di vedere quell’antica fiamma registica all’opera, tesa, precisa, febbrile, instancabile. Percependo, io come tutti, la felicità negli occhi di Aldo, la stessa che si può leggere nello sguardo di un pittore mentre esegue il suo quadro, incurante di tutto ciò che sta oltre quell’eterno presente creativo. Scrissi: «Il notturno di Chopin è un oggetto d’arte: un film “chiuso” che nasconde la perla di una prova d’autore sotto il carapace di una situazione sgradevole, che denuncia l’orrore della violenza sui minori. E il fatto che non ci sia alcuna corrività efferata nel mettere in scena questa storia di orchi, la rende ancora più insostenibile. Nella misura in cui la narrazione sposa il punto di vista della piccola Sofia, è coerente e logico che il mondo che noi vediamo sia quello che vede lei, attraverso i suoi occhi di bambina di nove anni. Psicologicamente, una scelta incisiva e che ben si sposa con il coté eterodosso e attratto dal surreale che ha sempre contraddistinto la visione cinematografica del regista. Nelle cui migliori riuscite la verità nuda, cruda e crudele celebra le nozze con il gusto per lo speculativo e l’intangibile».  

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