Le fotografie che ritraggono Thierry Metz ci mostrano un giovane che, in virtù della sua corporatura massiccia e del suo abbigliamento informale, si potrebbe definire un anti-poeta. È difficile mettere in relazione le sue prose, le sue liriche folgoranti, con l’aspetto dimesso, quasi trasandato, che compare in tali immagini. Eppure si capisce che l’ambientazione è la stessa delle sue pagine dolorose, incentrate sulla registrazione di una personalità sdoppiata e di un lavoro frustrante: una rimessa fatiscente in cui si vede seduto sopra delle travi in legno, un albero lussureggiante che sembra accoglierlo in un’anomala dimensione protettiva, una località di campagna che lo incornicia mentre fissa l’obiettivo, fiero di una margherita che spunta dalla scollatura della camicia con la ricercatezza di un gioiello.     

Campione di sollevamento pesi, Metz è costretto a lavorare come manovale, trovando soltanto la sera, quando rincasa, qualche attimo di serenità attraverso “il pane della scrittura”

Metz si può considerare come uno degli ultimi eretici: parte da un rapporto con la scrittura che non ha nulla di accademico, e si basa quasi esclusivamente su una sensibilità non comune, acuita da una serie di vicissitudini esistenziali che l’avrebbero gradualmente portato all’autodistruzione. La sua vicenda biografica è esemplare. Nato a Parigi nel 1956, Metz si sposa nel 1977 con Françoise Fenautrigues, sua compagna di scuola, dalla quale avrà tre figli. Si stabiliscono ad Agen, sulle rive della Garonna, in una casa isolata che creerà non pochi problemi a quella coppia di adorabili sprovveduti. Campione di sollevamento pesi, Metz è costretto a lavorare come manovale, trovando soltanto la sera, quando rincasa, qualche attimo di serenità che gli consenta, attraverso «il pane della scrittura», di sublimare ciò che brucia «nel focolare dei giorni». Scrive con il genio dell’autodidatta che deve misurarsi solo con la propria natura, inviso a ogni corrente o consorteria letteraria. Non vuole sorprendere o scandalizzare il lettore ma parlare della vita quotidiana con la semplicità che permette alla foglia di aggrapparsi al ramo, al rosolaccio di distinguersi in un prato. Con ostinazione, con abnegazione, con rigore, vantandosi di un pugno di versi strappati all’oblio dopo una giornata spesa a confrontarsi con un lavoro mortificante e ottuso.     

Questa esperienza è documentata nel Journal d’un manœuvre che esce per Gallimard nel 1990 (tradotto in italiano da Andrea Ponso con il titolo Diario di un manovale per le Edizioni degli Animali tre decenni più tardi). Nel 1986 muore ad appena otto anni, a causa di un incidente stradale, il secondogenito Vincent. È l’inizio del calvario che porterà Metz ad affrontare una depressione che lo trascina nelle case di cura di Périgueux, Agen, Cadillac. Tali dissociazioni dell’essere sono descritte, con dovizia di particolari, nel volumetto postumo L’homme qui penche, pubblicato da Opales/Pleine Page nel 1997 e proposto nel 2001 dalle Edizioni Via del Vento con il titolo L’uomo che pende, a cura di Michel Rouan e Loriano Gonfiantini, primo lavoro tradotto in italiano. È il suo testamento poetico, l’autore si è tolto la vita a Bordeaux il 16 aprile 1997.

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Di lui restano alcuni splendidi libri, a cominciare da Lettres à la bien-aimée, uscito per Gallimard un paio di anni prima della scomparsa, che rappresenta una sorta di memorandum della sua poetica, e in cui si lega indissolubilmente alla figura della moglie e del figlio Vincent. La raccolta, tradotta in italiano da chi scrive per il Ponte del Sale nel 2022 con il titolo Lettere all’Innamorata, è il punto più alto, insieme al succitato Journal d’un manœuvre, della produzione di Metz, dispersa in plaquettes e pubblicazioni affidate in genere a editori di nicchia. È come se si stabilisse un conflitto tra le pulsioni di morte riconducibili all’immagine frantumata, ormai sfuggente, del figlio e la residua voglia di vivere che si manifesta attraverso il trasporto erotico per la moglie, intriso di una tenerezza d’antan: «Ti guardo mentre leggi. Sola, seduta, senza accorgerti che io sono nudo dietro ciò che fai. Ho l’audacia del pettirosso sul manico di un attrezzo. Mi avvicino il più possibile fino ad appoggiarmi sulla tua spalla. La tua mano mi raggiunge. Mi guardi. Parliamo dei bambini, di un libro o di un film, di qualche avvenimento». E ancora: «Amo allungarmi verso te, la sera, senza le spighe della lampada, una mano sul tuo ventre, il mio viso affondato tra il collo e i capelli / Là: un uccello potrebbe posarsi, senza timore».

Ma continua a mulinare in testa quell’«inesauribile, inesorabile assenza». È «una voce di bimbo che ci racconta quello che accade laggiù» in maniera impietosa, ossessiva: «So che pensi al piccolo, alla sua morte. / Che non rimane più di qualche gesto. In un fienile di rabbia». Solo qualche scintilla si propaga, impercettibilmente, in questo mare tenebrarum, commisurandosi ai piccoli elementi del mondo naturale che tuttavia non ostentano alcunché di salvifico: rami, foglie, uccelli, sentieri agresti che non portano da nessuna parte. Ci si accontenta del «necessario per fare un nido». Si è pur sempre una famiglia, nonostante quell’ombra si trasformi in silenzioso «ululato» che ripercuote d’echi tutta la campagna, connotando notti consumate «lì, nel letto che si assottiglia», coppia insonne «dentro un fogliame di parole». Un sarcofago d’alabastro, dove l’effigie degli sposi percepisce «il dolore del bambino perduto come se fosse adesso il nostro letto». Sotto il «tugurio di una parola» non c’è che «la piccola scala del tuo nome, che porta al lampone».

Dimenticare il cantiere, i nomi dei colleghi, gli attrezzi adoperati. E i calcinacci, la polvere che ti entra negli occhi, nelle narici, che ti imbianca i capelli

In Metz la scrittura scaturisce dalla tensione di dire l’indicibile, ciò di cui si dovrebbe tacere, rovesciando l’assunto di Wittgenstein: basta una corona di parole sgranata come un rosario per rivolgersi a «un altrove dove non c’è altrove», per riscattare una giornata spesa a misurarsi con piccoli gesti insensati. Ecco, riscattare quei gesti, sapendo che «là dov’eri c’era sempre un po’ di inchiostro», confondere la voce con quella di un uccello «che ti cantava sulla spalla». Dimenticare il cantiere, i nomi dei colleghi, gli attrezzi adoperati. E i calcinacci, la polvere che ti entra negli occhi, nelle narici, che ti imbianca i capelli, che ti fa diventare, ancora una volta, «uomo-talpa». Le impalcature dove sfrecciano rondini, incuranti dei manovali che si muovono come funamboli sull’abisso. L’amico e editore Jacques Brémond osserva: «Ogni giorno costruiva la sua vita – in senso proprio e figurato – con la pala dello sterratore e la cazzuola del muratore, con la penna del poeta».         

    

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Bisogna assecondare «la luce, complice dell’ortica», dormire «vicino a un sogno che l’albero ha rinnegato». Non c’è redenzione nella parola. Vincent è sempre lì, ectoplasma che si materializza con rabbia per non essere libero di vagare «in una casa contrapposta». La poesia si muove tra autenticità e consapevolezza che tale autenticità dà solo l’illusione di congiungere gli aspetti inconciliabili dell’essere: «Entrare e uscire a ogni parola, come fosse una casa». Muoversi come automi nella propria casa, parlando «del sole e delle nuvole che sono in noi» o, forse, che erano in noi. 

La poesia di Metz intende parlare della vita con il logos ridotto all’osso, senza alcun orpello, con l’articolata severità di Char, di Ponge, di Celan (una sua raccolta si intitola significativamente Sur un poème de Paul Celan). Tuttavia non c’è bisogno di gridare, ma di parlare «sottovoce», come suggerisce Jean Grosjean, ribaltando il concetto di banalità in meraviglia, in rinnovato stupore che si modula a ogni vocabolo strappato al silenzio, dissotterrato dai precordi con la forza di chi strappa per i capelli l’annegato al fatidico gorgo. No, non basta credere di avere «aquiloni nella voce». Così Metz non poteva che morire. Così come sono morti tanti suoi coetanei che operavano vicino a noi e non abbiamo riconosciuto in tempo. Si chiamavano Ferruccio Benzoni, Remo Pagnanelli, Giuseppe Piccoli, Nadia Campana. Morti per non essere stati capaci di costruirsi una «casa, d’ombra» che rispecchiasse «un’altra vita, eterna», secondo la formula che ne ricavò Beppe Salvia, uno dei più geniali tra loro. Michel Rouan rimarcherà, a proposito del mestiere scelto da Metz (ma è il mestiere che sceglie l’uomo, non viceversa): «finire una casa: puro nonsenso, perché solo la morte sa finire».

Metz, come dimenticare la tua “ipnosi”, la vita passata a registrare in un quadernetto il proprio dolore? In fondo ci avevi avvertito: “Scrivo nell’ortica, non nella rosa”

Il ricorso insistito a immagini sghembe, sgangherate, riscattato da un nitore espressivo che si innerva in una «parola contornata di oblio, di necessità», come precisato nel Journal d’un manœuvre, è una delle cifre distintive di questa poetica che usufruisce di vocaboli scarnificati, in parte svuotati del loro senso originario. Si passa dal pieno al vuoto, dal vuoto al pieno, ricchi di un’ebbrezza che manifesta «la collera nera del papavero». 

Sempre Brémond faceva riferimento al concetto artaudiano di suicidé de la société, usato per designare la vicenda esemplare di Van Gogh. La pietas che il poeta riconosce finanche a un uccello, a un filo d’erba, a una nuvola, non riguarda se stesso, refrattario come un dolmen delineato «su uno sfondo che resterà bianco». Metz, come dimenticare la tua «ipnosi», la vita passata a registrare in un quadernetto il proprio dolore? In fondo ci avevi avvertito: «Scrivo nell’ortica, non nella rosa».