«Desidero farle capire che a spingermi verso di lei non è una curiosità malsana o il gusto del sensazionale. Ai miei occhi, ciò che lei ha fatto non è il gesto di un comune criminale, né di un pazzo, ma di un uomo spinto agli estremi da forze che non controlla, e vorrei mostrare all’opera proprio queste terribili forze». Nell’Avversario, il più disturbante fra i suoi capolavori, Emmanuel Carrère indirizza queste parole a Jean-Claude Romand, l’uomo che il 9 gennaio 1993 sterminò la propria famiglia – sua moglie Florence, i suoi due figli Caroline, sette anni, e Antoine, cinque, e gli anziani genitori Anne-Marie e Aimé – al confine tra Francia e Svizzera, dopo aver passato diciotto anni a raccontargli menzogne: non si era mai laureato; non aveva mai trovato lavoro all’Organizzazione mondiale della sanità a Ginevra; non aveva mai fatto viaggi di lavoro all’estero, limitandosi a passare qualche notte in un hotel vicino all’aeroporto; viveva alla giornata, scacciando il pensiero della spada di Damocle dei suoi debiti.

Nel convincere Romand a sottoporsi a uno scambio epistolare che racconti la sua storia eccezionale, Carrère parla di «un uomo che non ha fatto qualcosa di terribile, ma un uomo al quale è accaduto qualcosa di terribile», che riferito a un pluriomicida domestico è una definizione ardita. Ma proprio qui alligna la più inconfessabile delle domande: si può raccontare la vicenda di un assassino di questa portata provandone non solo sgomento, ma anche una dolente empatia, un umano interesse per la sua specifica incarnazione del Male?

Me lo sono chiesto in questi giorni, leggendo e rileggendo di un’altra strage familiare, questa volta in un luogo che conosco bene: ad Alessandria, in Piemonte, lo scorso 27 settembre il sessantaseienne Martino Benzi ha ucciso la moglie Monica Berta di cinquantacinque anni, il figlio Matteo di diciassette, nella loro casa di via Cesare Lombroso; poi si è recato a piedi nella non lontana Casa di riposo Teresa Michel, ha assassinato la suocera Carla Schiffo di settantotto anni, e si è tolto la vita nel cortile della struttura.

Diversamente da Jean-Claude Romand, che dopo la sua strage ha assunto una dose di barbiturici scaduti giudicata anche da L’Avversario inadatta a un sincero intento suicidario, Martino Benzi ha portato alla realizzazione ultima il piano inintelligibile dei suoi demoni: non sapremo mai quali impulsi elettrici abbiano prevalso nel suo cervello – o il suo «movente», nel lessico cronachistico delle ore che seguono la tragedia – perché dopo aver sterminato la sua famiglia si è tagliato la gola. Tutto nell’arco della stessa silenziosa giornata di inizio autunno in provincia. Eppure anche in questo caso, a trent’anni di distanza da quello che è entrato nelle librerie di mezzo mondo, viene da farsi domande, da cercare spiegazioni, da scavare negli abissi e scrutare negli orridi: secondo Carrère, l’istinto di comprendere l’atrocità che sfugge a ogni senso non può «essere altro che un crimine o una preghiera», e ogni tanto è bene pregare, anche laicamente.

Alessandria è una città di centomila abitanti che dà la sensazione di averne un terzo o un quinto, perché tutti si conoscono, tutti si incontrano per le vie acciottolate del centro, tutti hanno ricordi condivisi di sagre e gite scolastiche e dicerie di paese. Tra i primi pensieri, non a caso, c’è stato: «Non li conoscevo». Via Lombroso, quella in cui abitava la famiglia Benzi, inizia sommessamente, accennando uno slargo dietro la centralissima piazza Garibaldi, e si snoda tra due ali di palazzine basse e anonime, costruite tra gli anni Sessanta e Settanta; qui ha operato per chissà quanti decenni Bruno, il barbiere che non si separava mai dal suo panama bianco latte e mi tagliava i capelli quand’ero piccolo, e che prima aveva tagliato quelli di mio padre, e prima ancora quelli del padre di mio padre. Inizialmente – ed è, questo, uno dei particolari che fatico a non considerare più inquietanti – si è portati a pensare che nella sonnacchiosa e semideserta via Lombroso, quartiere Pista Vecchia, Alessandria, non potrebbe mai succedere niente, né di particolarmente buono, né di particolarmente cattivo.

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