Nell’agosto del 1966 Mario Cresci aveva ventiquattro anni e non era mai stato al Sud. Arrivò in Basilicata con il treno, scese a una fermata in piena campagna, ma la stazione non c’era. Con valigia, macchina fotografica e cavalletto, prese un pulmino e arrivò a Tricarico, piccolo borgo in provincia di Matera, dove era stato invitato dal Gruppo Polis per collaborare al piano regolatore della città. Nel Mezzogiorno più profondo, il fotografo di origine ligure sperimenta come la fotografia possa divenire uno strumento fondamentale di conoscenza, coinvolgere la popolazione, influire sulle scelte politiche. 

L’artista Cresci (Chiavari, 1942) nasceva proprio in quel tempo, in un periodo storico in cui la storia individuale era storia collettiva, in cui arte, politica e società lavoravano insieme per il benessere comune. 

Per il giovane Cresci, appena laureato all’Istituto di Design industriale di Venezia, è una folgorazione. Inizia qui il “viaggio di un nomade sedentario”, lungo vent’anni, alla scoperta di un territorio così diverso da quello delle sue origini, ma così denso di fascino e magia.

Il progetto di “crescita civile” per cui Cresci si reca a Tricarico era molto ambizioso, frutto di una politica illuminata, che puntava sulla partecipazione dei cittadini e sulla conoscenza approfondita del territorio. Ogni mese si svolgevano assemblee con i contadini, inizialmente diffidenti. «Non capivano niente dei nostri disegni, ci chiedevano “che cosa è la sezione”, “che cosa vuol dire prospettiva”» ricorda Cresci. Ma ben presto la diffidenza si tramutò in fiducia. «Capirono che eravamo persone di buona volontà e iniziarono ad aprire le porte delle proprie case». 

Il fotografo viene conquistato dall’autenticità del territorio, ma soprattutto dalle potenzialità creative della cultura materiale locale, dalla tradizione contadina, estremamente ricca di spunti, che gli permisero di esplorare le potenzialità narrative dell’immagine, mettendo così solide basi alla sua lunga e articolata ricerca, che continua ancora oggi sugli stessi presupposti: indagare e scomporre le immagini, mettere in discussione i processi visivi, giocando sull’ambiguità del mezzo fotografico. Nelle immagini di Cresci il tempo non si ferma mai. Sono immagini in movimento, che si nutrono di connessioni inattese tra cose e persone.

Mario Cresci,Arianna catania,grandi fotografi italiani,rapporto su matera,un esorcismo del tempo,marco scotini,Simona antonacci
Un po’ di terra in cielo un po’ di cielo in terra, fotocollage, Tricarico-Milano 1973
Courtesy Archivio Mario Cresci

E si chiama proprio Un esorcismo del tempo la mostra dedicata a Mario Cresci, a cura di Marco Scotini con Simona Antonacci, visitabile al MAXXI-Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma, fino al 1° ottobre 2023. Trecentocinquanta opere vintage che raccontano in maniera completa e immersiva la ventennale ricerca del fotografo in Basilicata, dal 1966 al 1988. 

L’allestimento della mostra non segue un percorso cronologico, insegue piuttosto il pensiero dell’autore che esce ed entra dagli oggetti, dalle case, dalle vite degli altri. 

Non è un percorso, quanto piuttosto un labirinto, ricco di immagini: «Labirinto è l’analogia tra se stessi nel rapporto spazio-temporale con la realtà delle cose e i processi di comunicazione messi in moto dalle immagini fotografiche»racconta Cresci. «La fotografia è un pretesto e l’occasione per visualizzare: segni, rumori e apparizioni che avvengono nel tempo all’interno di un grande contenitore dai muri bianchi e che solo successivamente diventano immagini» spiega l’autore.

Prima che le fotografie, in Basilicata nacque il legame tra l’artista e la cultura locale, un’immersione totale in una realtà ignota che lo portò a vivere in stretto contatto con le persone e le cose. La fotografia diventa strumento privilegiato per conoscere gli altri. Non un atto estetico ma un desiderio profondo di comunicare e di conoscere. 

Alcuni incontri del fotografo con i suoi soggetti avvengono casualmente, come quello con La bimba di Tricarico: una sequenza di otto stampe, frutto di sperimentazioni in camera oscura, dove lo spostamento della carta fotografica, sotto la luce dell’ingranditore, produce immagini reiterate e sdoppiate. Altri, la maggior parte, nascono dalla profonda voglia di entrare in contatto con la popolazione, per conoscerne le storie, come in Ritratti reali e Fotografia nella Fotografia: Cresci si affaccia in punta di piedi in numerose case, mettendo oggetti e persone sullo stesso piano come momenti di studio sulla presenza/assenza nello spazio. Soprattutto in Interni Mossi (realizzato anche a Barbarano Romano), ad esempio, in cui figure evanescenti, con i volti mai a fuoco, abitano case e botteghe, mimetizzandosi con l’ambiente circostante ricco di dettagli e oggetti di uso comune.

«Cresci ha usato la fotografia come un grimaldello gentile, un modo per accedere alla cultura materiale, ai luoghi, alle persone. E quella cultura viene smontata e rimontata, come strumento di analisi» racconta Simona Antonacci che insieme a Marco Scotini ha magistralmente curato la mostra romana, grazie a una lunga ricerca negli archivi tra cui quello del CSAC di Parma, la collezione del MAXXI, la collezione privata di Lidia Carrieri, quella dei comuni di Tricarico e Matera. 

Mario Cresci,Arianna catania,grandi fotografi italiani,rapporto su matera,un esorcismo del tempo,marco scotini,Simona antonacci
Dalla serie Ritratti reali, Oliveto lucano, 1972
 Courtesy Archivio Mario Cresci

Matera, appunto. Nella città patrimonio dell’umanità, Cresci approda nel 1971 per redigere il Rapporto su Matera dopo lo sfollamento dei Sassi, «una sorta di necropoli, con le occhiaie nere, le porte le finestre abbandonate, luogo in cui la mortalità infantile era del 18%». L’approccio è lo stesso di quello usato a Tricarico: «A Matera pensai di lavorare immortalando la crudezza dell’impianto architettonico, senza retorica, in bianco e nero, in maniera diretta». Ma per Cresci, come spiega il curatore Marco Scotini, «nulla è identico, tutto è molteplicità, aperto a differenti interpretazioni e narrazioni, non esiste un’immagine assoluta, definitiva». Ed ecco che il fotografo ligure inizia a “scomporre”, ad animare gli oggetti della cultura contadina: utensili, cucchiai, marionette, statuine vengono spostati e riposizionati sulla carta fotografica, in camera oscura. Con risultati sorprendenti. Rayogrammi alla Man Ray e sequenze alla Muybridge, che Cresci chiamò Misurazioni (1979). A differenza del metodo usato fino ad allora, in cui le persone e i luoghi venivano sempre inseriti nel contesto, qui gli oggetti vengono isolati, animati, diventano appunti per raccontare altro, strumenti di studio sulle forme e sulle infinite direzioni che può prendere un’immagine. Isolati e affiancati a disegni, note e parole acquisiscono autonomia e forza narrativa anche fuori dal contesto in cui sono stati prodotti per la loro funzione primaria.

Mario Cresci,Arianna catania,grandi fotografi italiani,rapporto su matera,un esorcismo del tempo,marco scotini,Simona antonacci
Dalla serie Interni, Barbarano Romano, 1978-1979,
 Collezione Fotografia MAXXI Architettura

«Era il desiderio di lasciare una traccia di qualche cosa che poi io non avrei più visto. Questi oggetti, questi segni diventavano tracce, impronte, sequenze in cui sottolineavo come questa cultura contadina non potesse essere solo museificata, perché gli oggetti di questa cultura potevano diventare il presupposto per ulteriori fantasie, ulteriori storie» racconta Cresci. 

Ma non storie astratte, idealtipiche: storie che potevano nascere solo dall’accurata conoscenza di questo mondo, di chi usava quegli oggetti, di chi li fabbricava e con quali materiali, di quale fosse il valore delle cose per queste persone. Gli oggetti senza l’uomo raccontano l’uomo, la sua vita, la sua cultura, forgiata dall’esperienza diretta delle cose, che è la base su cui si fonda la creatività.

Cresci tornerà nel Nord postindustriale carico di parecchi ricordi, tra cui quelli di una domenica mattina nella chiesa di Tricarico: una folla di persone accorse non per la messa ma per la sua prima mostra in Basilicata. Nella sacrestia era allestita una sorta di “cronaca familiare urbana collettiva”, un centinaio di foto senza cornici, appese con gli spilli, capace di solidificare come malto e pietra il rapporto del fotografo – e in generale della fotografia – con le persone. 

Soggetto – e non oggetto – di una straordinaria storia artistica individuale, che si nutre della vita collettiva.

Mario Cresci,Arianna catania,grandi fotografi italiani,rapporto su matera,un esorcismo del tempo,marco scotini,Simona antonacci
Un po’ di terra in cielo un po’ di cielo in terra, fotocollage, Milano, 1973
Courtesy Archivio Mario Cresci