Nella seconda metà del Novecento, sembra aver ottenuto la ratifica definitiva un’idea che aveva alimentato a lungo la modernità, scorrendo però nel suo paesaggio come un fiume carsico: quella per cui, a dirla con un’efficace formula garboliana, l’intelligenza coincide con il male, con il machiavellismo morale, con la capacità di escogitare o di scoprire intrighi (a proposito: da che data “intrigante” ha cominciato a essere sinonimo di “attraente”?). Verso il 1960 il fiume è venuto alla luce, permettendo a Es e Super-Io di schiacciare a tenaglia il debole Io etico borghese, ipocrita e ingenuo insieme. Mentre Garboli analizzava il fenomeno nello specchio dei suoi autori, Andreotti ne dava una proverbiale versione cattolica: «A pensar male si fa peccato ma ci si prende». Cosa significa “pensare”, se non “pensar male”? Ma ogni senso comune troppo sicuro di sé diventa ottuso: non vede più il suo rovescio, il callo di stupidità su cui la sua intelligenza è sorta. Savinio alla mano, lo ricordò nel frattempo Leonardo Sciascia, osservando che a forza di scavi in profondità ci si stava disabituando a vedere la superficie. Siamo certi che il retroscena sia sempre più vero della scena? E su scala domestica: le malignità sibilate alle nostre spalle saranno poi più attendibili delle parole che ci dicono in faccia, o non invece solo più socialmente condizionate? 

Forse non abbiamo sospettato abbastanza di quelli che negli stessi anni Paul Ricœur definì i maestri del sospetto: Marx, Nietzsche, Freud, i grandi demistificatori riletti a partire dagli anni Sessanta con un estremismo astratto che pretendeva di proporre una demistificazione al quadrato o al cubo. Questa carenza di sospetto, del resto, è legata proprio alla svalutazione dell’Io etico, che nella vita sociale è stato considerato da allora non come una maschera problematica, ma appena come un elemento ininfluente, ridicolo o meramente strumentale.

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