Ferdinando Scianna (Bagheria, 1943) è il fotografo che il mondo conosce per le Feste religiose in Sicilia, libro pubblicato poco più che ventenne sotto l’ala di Leonardo Sciascia che ne firmò la prefazione. L’incontro fu fatale nel percorso del giovane fotografo siciliano: da quel momento il mondo della fotografia inglobò al suo interno tutto il vasto spirito di Ferdinando, curioso e smanioso di guardare e dar forma a una realtà impossibile da cogliere davvero. Scianna è anche il fotografo che è stato in grado di fondere il mondo del reportage con quello della moda negli scatti memorabili per le campagne di Dolce e Gabbana, immancabilmente ambientati nei vicoli assolati della sua memoria siciliana. Primo fotografo italiano a entrare nell’olimpo dell’Agenzia Magnum, nel 1989, introdotto dallo stesso Henri Cartier-Bresson, il suo destino si è sempre manifestato nelle vesti di immagini su pellicola.

Per questo, aprire un libro che porta il suo nome e non trovarvi all’interno alcuna immagine permette di prendere finalmente coscienza che negli occhi del fotografo, a volte, non si annidano soltanto visioni, ma anche l’amore per le parole, il bisogno di ordinarle, dar loro un senso relativo alla propria esistenza e  alla propria ricerca. 

Abecedario fotografico, il libro uscito recentemente per Contrasto, è un inventario in ordine alfabetico dei temi salienti del suo pensiero di fotografo: dopo anni di idee, appunti sparsi e conversazioni, troviamo in un’unica sede il frutto – o la radice, forse – concettuale che ha guidato il lavoro di Scianna. Si parte dalla “A” di Ambiguità e Amori, si finisce alla “Z” di Zeusi, si passa in mezzo alla “E” di Emozioni, alla “S” di Stile in un lungo elenco di annotazioni e pensieri personali. Scritti brevi, a volte fulminei che, nel periodo dell’ottantesimo compleanno del fotografo di Bagheria, vanno a comporre il mosaico delle sue riflessioni maturate in oltre sessant’anni di carriera.

Potendo fare qualche domanda al fotografo a partire dal libro in un denso botta e risposta, si è voluto appunto guardare più da vicino il suo rapporto con la parola, con le possibilità della fotografia, con le sue utopie.

Quanto è importante e quanto è difficile, per un fotografo, cercare di mettere a punto, a parole, il senso della propria ricerca? Farlo la ha portata a riflettere su altri temi?

Non so quanto lo sia per gli altri; per me è sicuramente diventato fondamentale. Non subito, certo: ho avuto bisogno di molte esperienze e di molta passione nel conoscere e amare il lavoro degli altri. Ma è stata una cosa naturale. Probabilmente mi viene, viene a molti siciliani, dall’insegnamento di Pirandello: vivere e guardarsi vivere, riflettere su quello che si fa in rapporto al mondo e a quanto hanno fatto e fanno gli altri. Anche questo Abecedario, nato alla vigilia dei miei 80 anni, nasce da questa necessità. Certo, ho soprattutto riflettuto sul mio mestiere, ma anche su molte cose della vita, anche se non pretendo di infliggerle agli altri. Non sono certo un filosofo. Vivere, fare, significa cambiare le proprie idee pur rimanendo sostanzialmente se stessi. Così mi sento oggi: uguale e diverso.

Nel libro, sotto la A di Antropologia, dice che all’inizio pensava di cambiare il mondo con la fotografia, auspicando «la rinascita di una realtà umana e culturale nella cui armonia avrebbe dovuto specchiarsi il radioso avvenire».  È stata dunque un’utopia a guidare il suo lavoro? È finita del tutto quell’utopia? Quando?

La speranza, hanno scritto Spinoza, Leopardi, Cioran e molti altri, è un pensiero fragile, una gioia effimera, che appartiene soprattutto alla gioventù. Utopia proprio questo significa: un luogo che non esiste. Ma ci sono sempre dei giovani che ricominciano a crederci e anche i vecchi, se l’hanno vissuta, non riescono mai ad abbandonarla completamente.

Quanto era presente anche tra gli altri fotografi (e tra gli artisti, gli intellettuali) dell’epoca questo sentimento di voler cambiare il mondo?

Quando ero giovane ci ha abitato molto, e non solo gli artisti e gli intellettuali. Gli uomini, almeno per un periodo della loro esistenza, ne hanno bisogno per vivere.

In Frammenti, invece, dice: «La fotografia è […] la ricerca, forse assurda, di istanti di  senso, di forma, nel caos della vita». Le forme del caos  è anche un suo libro del 1989, un tema cruciale del suo lavoro. La realtà contiene quindi in sé le risposte per poter essere compresa? O anche questo di poterla comprendere resta un’ambiziosa utopia?

La realtà non contiene risposte, ma contiene la vita, e la vita è forse soltanto ricerca della felicità, della bellezza, fuga dal dolore, dall’ingiustizia. Non credo ci siano altre risposte.

In un altro punto, sotto la lettera O di Ossessione, si interroga sul significato della parola “inventare” in fotografia, che riconduce alla sua etimologia latina di “trovare”. In fotografia, dovendo partire sempre dal dato oggettivo della realtà (come anche lei più volte sottolinea e ricorda), pare così che non si possa parlare di creazione, ma di invenzione, appunto. È così? Qual è per lei la differenza? Al fotografo non potrà mai essere conferito un potere creativo?

Il verbo creare dovrebbe forse essere utilizzato per quella categoria, assai rara, degli artisti, uomini che la realtà la creano, appunto. Oppure in connessione alla parola Dio, che, come dice Borges, è un immenso personaggio creato dalla letteratura fantastica. Il fotografo non crea la realtà, la legge, la trova. Naturalmente, ciascun fotografo la vede in maniera diversa, e alcuni, molto rari, ne sanno scoprire anche la dimensione estetica, il senso nella bellezza. Non mi pare poco.

Il suo rapporto con la parola è sempre stato un forte amore che l’ha portata a scoprire la grande letteratura mondiale e a desiderare di saper scrivere come i suoi maestri. “La scrittura come un vecchio rimorso o un vizio assurdo.” scrive sotto la C di Cinque libri. C’è qualcosa che la parola le dà che la fotografia non riesce a darle?

La fotografia non ha prodotto un Dante, un Tolstoj, un Leopardi. Non scherziamo. La cosa più importante che caratterizza quella straordinaria specie animale che è l’uomo è il linguaggio, e il linguaggio più alto, ci credo moltissimo, è la parola. Forse anche la musica, o la pittura. Ma a un livello diverso. Io sono un fotografo, me la cavo meglio con la fotografia che con le parole. Purtroppo, non sono uno scrittore, ancora meno un grande scrittore.

Vorrei ancora farle, per concludere, un paio di domande al di fuori del libro. Chi sono, se ci sono, i suoi eredi fotografici?

Non credo di avere una dimensione espressiva tale da pretendere di lasciare eredità. Sono un discepolo di professione.

Se avesse vent’anni adesso, troverebbe gli stessi stimoli che hanno guidato i suoi primi passi nella fotografia nel mondo di oggi? 

Il mondo, la realtà, sono un grande, infinito libro da leggere e rileggere. Ci saranno sempre uomini, che abbiano o meno vent’anni, che avranno la passione di leggerlo e raccontarlo.

A corredo dell’intervista sono inserite alcune immagini della versione aggiornata e rinnovata del FotoNote di Contrasto dedicato a Ferdinando Scianna, anch’esso recentemente pubblicato.