Non so se si sia mai riflettuto sull’influenza del marchio Adelphi nella costituzione di un canone della letteratura italiana. Gli scrittori che più di altri sono diventati vanto ed emblema della casa editrice – Arbasino, Gadda, Landolfi e Manganelli – hanno caratteristiche che li isolano rispetto ad altri autori più ecumenici dello stesso brand, come Parise e Sciascia, o più defilati come Flaiano (mentre Savinio, l’unica vera e autentica riscoperta di questo editore specialista nell’acquisire cataloghi altrui, oggi sembra essere passato di moda; e Soldati è stato abbandonato perché non abbastanza chic): una spiccata predilezione per il lavoro sulla lingua, e un tasso di leggibilità a volte basso. Gli scrittori italiani cult targati Adelphi spesso sembrano fatti per essere delibati in piccole dosi, anche se il loro consumo garantisce altissimo prestigio all’utente. Manganelli è sicuramente tra i più “difficili”, anche se si presta alla citazione parcellizzata – da cui il rischio di una flaianizzazione di Manganelli, la sua indebita riduzione ad autore soprattutto di aforismi, confortati magari dalla citazione che apre Loro di Sorrentino («Tutto documentato. Tutto arbitrario»), tratta (imprecisamente) da Pinocchio: un libro parallelo. Ma va anche detto che Manganelli, come il Novellino da lui prefato, è uno «svelto e mimetico felino letterario» che sfugge al brand, si disperde in una miriade di libretti e sillogi che spesso ne danno un’immagine più ludica e meno ingessata.
I libri di Manganelli, ripeto, a volte sono poco leggibili e fanno spazientire – ma lo diceva anche lui, nelle meravigliose alette che scriveva, veri e propri caveat, trappole, affabulazioni che trasformano il libro in operazione concettuale e objet d’art (in passato, purtroppo, alcune biblioteche buttavano via le sovraccoperte; mentre le edizioni Adelphi, spesso munite di utili apparati e inediti, ignorano per principio le copertine d’autore – a volte riproducendole all’interno – e in genere sostituiscono i paratesti originali con quelli calassiani, che impongono gli stessi aggettivi – “fulminante”, “prodigioso”, “irrimediabile” – a qualunque autore della quaterna sopra ricordata. Opportunamente, alette e quarte manganelliane sono state raccolte e commentate nel volumetto Quarte di nobiltà [Aragno], curato da Lietta Manganelli).
Ricordo che da giovane stavo leggendo Sconclusione (uno dei pochi titoli non ancora ristampati da Adelphi, come gli ostici Amore e Rumori o voci). In un bizzarro contesto che non sto a ricordare, un mio coetaneo, incuriosito dal titolo, prese il volume e si mise a leggere ad alta voce l’aletta, sganasciandosi dalle risate: «“Il presente volumetto, timido e schivo, vuol proporsi all’attenzione dei lettori mentalmente perplessi, cui dan di gomito incarognite allucinazioni… Adesca i sommessi fobici i cerimoniosi delicati, i nevrotici altamente depressi… Con modestia artigianale si propone di incrementare e diffondere i disturbi mentali…” Me lo devi prestare» mi disse, «deve essere uno spasso!». Non volli deluderlo e non glielo prestai (feci bene: oggi Sconclusione è una rarità da bibliofili). A dire il vero, forse non lo finii nemmeno, anche se ad aprirlo oggi mi sembra abbia un buon tasso di leggibilità, e anzi mi ricorda la prosa di Antonio Rezza (è un complimento per entrambi). E ripenso sempre all’episodio quando intercetto sul web lettori che si fanno selfie con in mano Discorso dell’ombra e dello stemma e il commento: “Oggi lo inizio! Non vedo l’ora!” – chissà se poi arrivano a pagina trenta.
Dei libri “difficili” di Manganelli, Discorso dell’ombra e dello stemma è quello che gode di miglior fama, come si evince anche da quel documentatissimo e utile saggio che è Giorgio Manganelli o l’inutile necessità della letteratura di Anna Longoni (Carocci). Ma davvero Manganelli è soprattutto un teorico della letteratura al quadrato, della scomparsa dell’autore che viene parlato dal linguaggio e del linguaggio che anela al silenzio – quando non significa solo se stesso? Manganelli viene sicuramente dopo Borges (che però non era un teorico) e dopo Blanchot. L’accostamento Manganelli/Blanchot non è certo nuovo, e ci sono varie cose che li uniscono. Il fatto di scrivere libri di cui è obiettivamente difficile riferire, come Amore o Au moment voulu. O il fatto di essere entrambi sopravvissuti a una minacciata fucilazione mentre facevano la Resistenza. (Manganelli ne scrisse poco e minimizzò – anche per questo rimando alla bellissima biografia di Lietta Manganelli: Giorgio Manganelli. Aspettando che l’inferno cominci a funzionare [La nave di Teseo]. Blanchot lo fece solo poco prima della morte, in un testo di grande intensità e insolitamente leggibile, tradotto da Patrizia Valduga su «Aut Aut»: L’istante della mia morte.)
Leggo nel saggio di Blanchot su Borges contenuto in Il libro a venire: «Il mondo e il libro si rimandano eternamente e infinitamente le loro immagini riflesse. Questo potere indefinito di riverberazione, questo scintillante e illimitato moltiplicarsi che è il labirinto della luce e che per altro non è un nulla, sarà allora tutto ciò che troveremo, vertiginosamente, in fondo al nostro desiderio di capire».
Leggo in Pinocchio: un libro parallelo: «Un libro, rettamente inteso nella sua mappa cubica, diventa così minutamente infinito da proporsi, distrattamente, come comprensivo di tutti i possibili libri paralleli, che in conclusione finiranno con l’essere tutti i libri possibili».
Alla fine, in Blanchot, non c’è il nulla. In Manganelli sì. Per Blanchot la letteratura non è menzogna. Per Manganelli, notoriamente, è la sua essenza. Blanchot è a suo modo un mistico, anche se non parla mai dell’aldilà. Manganelli non è un mistico, anche se parla spesso dell’aldilà (Dall’inferno è uno dei suoi libri che preferisco). Non è un caso che Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti (in Agli dei ulteriori) sia stato tradotto dal London Institute of Pataphysics. In Manganelli c’è sempre un lato ludico, burlesco (quel “distrattamente”, nel brano appena citato, che scompagina la serietà borgesiana dell’insieme), comico; e allo stesso tempo un lato terragno, carnale (vedi, per quanto a volte un po’ imbarazzante, l’epistolario da poco raccolto da Salvatore Silvano Nigro in Mia anima carnale, Sellerio). Blanchot di tanto in tanto può essere carnale, ma terragno e comico proprio no.
C’è uno shock a passare dal massimalismo di Hilarotragoedia (impagabile l’episodio riferito da Lietta, dove nel 1964 Gadda, inviperito, va a casa di Manganelli accusandolo – assurdamente – di avere voluto parodiare La cognizione del dolore) alle scatole cinesi di Nuovo commento. Ma anche da Hilarotragoedia ai racconti di Centuria, il suo unico bestseller: dove quest’uomo che diffidava del romanzo scatena la sua vena narrativa con un virtuosismo, una godibilità e una trasparenza calviniani.
E poi c’è, smisurato e in parte ancora da esplorare, il Manganelli giornalista: autore di reportage di viaggio (sempre molto belli), recensioni e corsivi. Da vivo, Manganelli raccolse questi ultimi in Lunario dell’orfano sannita (angustamente stroncato da Pasolini in Descrizioni di descrizioni per “teppismo piccoloborghese”) e Improvvisi per macchina da scrivere (amorevolmente stroncato, con argomenti spesso difficilmente oppugnabili, da Enzo Golino in Sottotiro). La raccolta migliore, però, è quella curata da Marco Belpoliti: Mammifero italiano (Adelphi). Ci sono pezzi memorabili come la risposta all’articolo di Pasolini sull’aborto (pubblicata sullo stesso «Corriere della Sera»); la recensione, purtroppo d’attualità, dell’autobiografia di Giorgio Almirante, Diario di un fucilatore; una riflessione sull’ebraismo o ebraitudine, dove tra l’altro si capisce cosa sia per Manganelli il sacro. Quando esce dai percorsi obbligati e prevedibili del paradosso swiftiano o dell’elucubrazione erudita, Manganelli è un grande intellettuale che sa smontare la realtà con un disincantato razionalismo degno di Umberto Eco. Anche per questo si sente la sua mancanza, in tempi di fake news e di tante menzogne non letterarie.
Ritrovato casualmente, ripubblichiamo – per gentile concessione di Lietta Manganelli, che qui ringraziamo – un articolo apparso su «L’Espresso» il 26 maggio 1974 e finora mai ristampato (come moltissimi altri).
L’uomo comincia da mezzo metro in giù
Esiste in America – che cosa non esiste in America, questo instabile miraggio che ospita sedie elettriche, testimoni di Geova, majorettes e Richard Nixon? – esiste, dunque, una associazione di nani. “Non siamo elfi” dicono, con una dignità che ha l’arguzia di una lancinante burla; e che sia una burla lo ribadisce il nome della loro associazione: The Little People of America; e “the little people”, “gli esseri piccoli”, sono nella decidua ma non dispersa mitologia rurale inglese e irlandese, appunto gli elfi.
Chi sono, per noi, nella nostra psicologia, nelle nostre fantasie, i nani? Non direi che sono soltanto e principalmente degli esseri cresciuti meno di noi, dunque, relativamente, “piccoli”; vi è qualcosa di più sottile, enigmatico, inquietante in queste persone che sono riuscite ad essere tali impiegando tanto meno corpo, meno carne, meno ossa di noi. Non saranno un caso estremamente progredito di utilizzazione di quel materiale terrestre – originariamente pare fosse argilla – di cui noi siamo stati fatti, con laborioso accanimento? Vi è una strana luce astuta in quei volti minuscoli e seriosi, come se fossero a conoscenza di cose che noi, miniaturizzati dinosauri, nemmeno riusciamo a sospettare. Ma non è solo questo: non solo la sensazione che, nella progettazione dell’esistenza, i nani siano più parsimoniosi e competenti. Si ha la sensazione che la loro esistenza sia diversa, furbescamente sottratta agli impegni grossamente sociali che la nostra taglia ci impone. Che abbiano conservato un che di infantile, è certo; ma non si tratta di un’infanzia fisiologica, della infanzia che noi abbiamo vissuto e di cui ci siamo malamente spogliati. È piuttosto l’idea platonica, la fantasia di quel che sia l’infanzia, quel sogno tra malizioso e sventurato che insaporisce o amareggia i nostri sogni. Come si addice ad infanti adulti, i nani esibiscono una natura sfuggente, giocosa e clandestina, che rimanda al parlottio fiabesco dei bambini, quel vivere in un mondo dove bastano le gambe di una sedia per disegnare una tana imprendibile e infinitamente notturna. La loro qualità filosoficamente infantile dà l’impressione che essi siano in costante crescita; ma anche questa è una loro astuzia, una gherminella; giacché l’essere nani comporta solo l’alone, l’eventualità, l’ipotesi, di una crescita. Essi potrebbero crescere, ma hanno deciso di non farlo. Cortesi e ironici, come sempre “little people”, essi ci guardano di sotto in su, presenti, anzi prossimi ed oscuramente imprendibili; se vogliamo stringere loro la mano, dobbiamo venire a patti con la loro misura, con la misteriosa immagine dell’uomo che in loro ha scelto sé stesso, identica e diversa, fraterna ed occulta. In quei brevi corpi si riassumono molti nostri sogni, e ci sentiamo indegni di maneggiare quella forma che persegua una altra esattezza, o forse l’unica esattezza. Non abbiamo noi forse davanti una specificazione del microcosmo, qualcosa che forse non doveva uscire dai laboratori alchemici della creazione, un progetto speciale, forse una spia sulla segreta inventività, sui modelli segreti del mondo? Qualcuno, molti secoli or sono, perseguiva la creazione eversiva di un uomo minuscolo – l’homunculus – deposito minuto e clamoroso di una minuta forza magica. Ed ora, rivediamo la stessa arcaica dolcezza eversiva in questi corpi che si fingono fragili, e hanno guadagnato una drammatica inconsistenza. E riscopriamo, in quella strana grazia acquattata, come si acquattano le fate, un segno magico, periferico, eccezionale, corpi in cui l’eroe e la vittima si incontrano, in cui il gioco ha un sapore così misto, che insieme ci irretisce e ci sgomenta, come una angoscia ilare, una furba sconfitta. Se la natura, in questa vecchia e bizzarra allegoria del grembo carnale e vegetale, usasse parlare per retorica, cosa che talora fa, ma per interposta persona, direi che nei nani essa indulge a quella misteriosa figura retorica che è l’ossimoro: nel quale si giustappongono termini apparentemente inconciliabili; dunque, la figura retorica della conciliazione degli opposti. In questo suo arduo capolavoro, la natura ha scelto di incontrarsi con ciò che ai nostri brevi occhi di adulti sembra l’innatura. Volontariamente sconfitta, la natura si lascia ridurre alle sue dimensioni un po’ scolastiche di macchinosa allegoria, mentre di fronte a lei grandeggia, imperscrutabile, la figura magica, ilare e sgomenta, del nano.