Secondo un’opinione diffusa e non troppo inattendibile, la critica letteraria del Novecento italiano ha due protagonisti: Gianfranco Contini e Giacomo Debenedetti. Entrambi sono crociani eretici. Entrambi sono attratti sia dalla matematica in senso stretto, sia dalle metafore scientifiche (la geometria non euclidea del romanzo in Debenedetti, la “diffrazione” nella filologia continiana). Ma soprattutto, entrambi tengono come pietra di paragone quel critico assoluto che è Proust, le cui metafore s’impongono appunto come leggi fisiche. Eppure questi due intellettuali si prestano a un doppio ritratto per opposizioni.

Debenedetti esibisce un cauto agonismo nei confronti della cultura modernista e simbolista: anziché accettarne gli enigmi, prova a tradurli in racconto, a raccoglierli intorno a un personaggio e a un destino dietro cui s’intravede un’autobiografia. Contini, viceversa, è complice di quella cultura egemone, e ne commenta i prodotti in un a parte ermetico in cui cadono osservazioni acutissime, ma mai chiaramente riconducibili a un carattere:

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