Capita di andare a una mostra di Michelangelo Pistoletto, a Roma, e trovare spazi in cui s’invita il visitatore a scattarsi un selfie e ripostarlo con un hashtag legato all’evento.
Capita di passare per Milano, di fronte alla Darsena, e sui balconi di un edificio trovare stese, come lenzuola ad asciugare, riproduzioni della copertina dell’ultimo album di Calcutta.
Capita di sedersi in una qualsiasi trattoria alla mano e sorprendersi per un impiattamento talmente curato che sarebbe proprio un peccato non fotografarlo, e poi, dopo mangiato capita che il proprietario, nell’incassare il conto, ti chieda di lasciargli una recensione sulle principali piattaforme dedicate.
È innegabile come ormai le nostre esperienze sociali “materiali”, ossia banalmente quelle che ci costringono a uscire di casa, siano sempre più costellate di richiami a quella seconda vita, parallela e smaterializzata, che viviamo ogni giorno sui social network. Nei casi citati, come in molti altri, il fine di tali rimandi è di natura commerciale, marketing per vendere qualcosa, eppure è proprio questo aspetto a evidenziare un cambiamento di prospettiva, una tendenza quasi inesorabile: il primato del mondo virtuale su quello reale.
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