Il cinema può servire a leggere le immagini che arrivano dai luoghi di guerra e di morte di Gaza e Israele? C’è chi usa il cinema in modo osceno trasformando la realtà in uno spettacolo, come il titolo di «la Repubblica» del 1 novembre in cui i soldati israeliani venivano paragonati a quelli di Full Metal Jacket (ma già i video di propaganda dell’ISIS sembravano i trailer di qualche brutto film d’azione americano straight to video di fine anni Novanta). Avere dimestichezza con il linguaggio delle immagini, invece, dovrebbe aiutare, se non a interpretare quello che vediamo – o decidiamo di non vedere –, almeno a riflettere sulla morale che sta dietro chi riprende queste immagini e, soprattutto, su chi le usa e chi le guarda.

Forse non sono la persona più adatta per parlare, dato che tendo, per quanto possibile, a evitare la visione delle “immagini-shock”, come direbbe qualunque quotidiano online, e non leggo nemmeno i resoconti dei giornalisti che assistono alle proiezioni di queste immagini, come quelle organizzate da Netanyahu per mostrare alla stampa estera ciò che è successo il 7 ottobre. Non citerò neanche Susan Sontag o qualche altro libro, perché altri hanno più titoli di me per farlo; né voglio scrivere uno di quegli interventi da intellettuali che si illudono di andare oltre le apparenze beandosi di un’ambigua equidistanza, che poi tanto equidistante non è. Vorrei solo partire da alcuni film che parlano di crimini di guerra, perché mi sembra che lì ci sia da imparare qualcosa.

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