Dopo il ritratto in 3D scritto nel 1938 da Valéry – Degas Danse Dessin –, ogni tentativo di cogliere in flagrante l’essere del grande dissimulatore può risultare vano e sconsigliabile a chi abbia un po’ di buon senso. Dotarsi di occhialetti con lenti polarizzate non servirebbe, con Degas ci vuole un timpano plastico, vibrante come il cembalo sonoro di biblica memoria, capace di auscultarne la musica silenziosa che risuona nelle forme create da chi, perdendo via via il suo strumento più necessario, la vista, curò l’inesorabile piaga sviluppando gli altri due sensi fondamentali: l’udito e il tatto (coniugandoli nella scultura). Daniel Halévy non resiste al paragone: «Degas è il pittore diventato cieco come Beethoven è il musicista diventato sordo». Trait d’union l’ineffabile, il non-so-che, la musica interiore che ciascuno interpreta coi mezzi che si trova. «Ta musique» diceva Baudelaire.

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© RMN-Grand Palais (musée d’Orsay) / Thierry Le Mage

Valéry conobbe Degas a casa di Rouart tra il 1893 e il ’94. Depositando di tanto in tanto nei Cahiers “notazioni” rarefatte, ma sempre concettualmente pertinenti, come schegge di un diario insomma, scrisse che con Degas il dessin, l’appunto visivo, prevale su ogni parola; dopotutto, non è per niente strano in un pittore (o in uno scultore: l’indecisione durò parecchio), ma Ingres – il maieuta di Degas –, che nel disegno vedeva l’unica verità, scrisse anche che «il disegno è la probità dell’arte».

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