Un parere diffuso riporta che gli scrittori dall’esordio tardivo compaiono sulla scena letteraria privi delle incertezze e degli sbalzi di chi esce presto dall’ombra; che l’aver meditato a lungo sull’opportunità di sottrarsi al silenzio è il segreto per una voce inconfondibile, destinata anche solo per ragioni cronologiche a non cambiare più. Poi capita di leggere l’ultimo libro di Donatella Di Pietrantonio, L’età fragile, e per un istante viene da rimangiarsi tutto.

Classe 1962, Di Pietrantonio esordisce nel 2011 con Mia madre è un fiume e prosegue con Bella mia (entrambi per l’editore Elliot), ma la consacrazione internazionale è con L’Arminuta del 2017, pubblicato, come tutti i suoi romanzi successivi, da Einaudi. Spunto iniziale di quel libro era un’usanza reale, difficile da registrare, della parte più arcaica della società italiana del Novecento: quella dei “figli ceduti”, in base alla quale famiglie numerose e indigenti cedevano senza accordi scritti un figlio ad amici o parenti sterili, ma benestanti. La vicenda della tredicenne protagonista del romanzo, cresciuta in una famiglia borghese di un’anonima località di mare (dietro cui s’indovina Pescara, ambientazione esplicita del sequel Borgo Sud del 2020), si apre con il suo ritorno obbligato a una famiglia di “parenti” (in realtà i genitori biologici) in un borgo rurale delle montagne abruzzesi. Richiamata alla base dietro la motivazione ufficiale del trasferimento per una malattia della madre, la ragazza, a sottolineare la crisi del sé, non ha un nome ma solo il soprannome che dà il titolo al libro. La forza della storia, perciò, si cela in un’intersezione perturbante: fra tradizione popolare e incubo infantile, da manuale di psicanalisi, per cui il bambino a un certo punto viene colto dallo speranzoso terrore di non appartenere veramente alla famiglia in cui è nato e cresciuto, ma a un’altra ancora ignota. Il resto, nell’Arminuta, lo fa lo stile di impressionismo scabro e contratto della protagonista-narratrice che trascrive i fatti risparmiandosi giudizi, sentenze, perfino chiarimenti ex post: testimonianza di un mistero delle radici, di una cecità di partenza, mai per intero sanata, di questa taciturna variazione abruzzese di Edipo. La ricerca dell’identità perciò è descritta nei modi di un innesto, urtante e riuscito, che sfiora violenze e tabù (come l’incesto col fratello Vincenzo), trova la svolta proprio nella tragedia (è ai funerali di Vincenzo, morto in un incidente, che l’Arminuta sente per la prima volta “di appartenere alla famiglia”) e si consacra con il battesimo finale della sorellanza fra l’Arminuta e Adriana in un bagno nell’Adriatico.

L’età fragile non riesce a non prestarsi, con estrema facilità, a una lettura in chiave terapeutica

L’età fragile ci riporta sulle amate montagne abruzzesi, che di nuovo agli occhi di Lucia (fisioterapista di mezza età, separata) sono un’eredità respinta. Ma quanto di incompreso e brutale dava linfa all’Arminuta, qui sta al modo di una premessa, ampiamente esposta, del racconto.

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