Per me la Polonia significa amicizia. Mi sono trovata là ragazzetta, gonfia di voglia di imparare, ma con una bimba appena nata al collo e una mamma da poco morta che mi pesava dentro come un sasso, eppure in quel paese ho trovato amicizie tali che sono diventate le gambe del tavolino che ero, e che sono. Anna Bikont è una di queste amiche.

E qui, mi chiedo, come si fa a recensire il libro di un’amica (geniale)? Ma come è possibile non farlo, non parlarne? 

Non sei mai stata ebrea è il titolo di questo suo ultimo libro. 

E io, qui, come dopo ogni libro che lei scrive, mi ritrovo in testa, nelle mani, quasi direi nelle ossa, il risultato della sua ricerca ormai ventennale sugli ebrei polacchi durante la guerra, roba di cui dovremmo parlare e parlare e parlare, e lo so che la tradurranno e faranno bene a farlo, ma che insomma si diano una mossa, perché questo imporre l’esigenza di parlare di quel che si è letto, be’, è una dote ben rara tra chi scrive. 

Per chi conosce il suo lavoro il titolo è di per sé un grido che la riassume, e quindi complimenti, perché la frase illumina la difficoltà terribile e tutta polacca di poter vivere apertamente da ebrei e, in questo, calza il suo lavoro come un guanto. 

Sono sei capitoli e ciascuno racconta la storia di una donna, donne che lei ha cercato con un lavoro quasi investigativo, ha poi raggiunto, intervistato, spesso ha parlato con queste donne per anni

Sono sei capitoli e ciascuno racconta la storia di una donna, donne che lei ha cercato con un lavoro quasi investigativo, ha poi raggiunto, intervistato, spesso ha parlato con queste donne per anni, alcune le ha frequentate e basta perché loro di sé non volevano parlare, perché ricordare e raccontare significa rivivere e ripercorrere quella vita di cui si parla e il male, che dire, il male è anche giusto che chi lo ha conosciuto cerchi di lasciarlo dov’è. 

Le sei donne di cui parla in questo libro hanno la comune memoria di essere sopravvissute alla guerra da bambine, da bambine ebree però, come se la guerra per un bambino non fosse di per sé abbastanza, no, in più loro erano anche ebree. La frase del titolo è del marito di una di loro, la dice a sua moglie e, per quanto orribile, sbagliata, malata, assurda è persino una frase che esprime una grandiosa tenerezza. Perché le dice: «Non sei mai stata ebrea, te lo sei sognata. È stato un brutto sogno. Adesso tu vivi per me e io per te». 

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Lei, Alina, quando sente questa frase è una donna, ha un marito, dei figli, la guerra è finita da anni, vivono in una Polonia socialista e nemmeno in campagna, ma a Radom, una piccola città.

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