Parigi, Place d’Aligre. L’orologio della Petite Mairie segna quasi le due. È tempo di andare. Gli ambulanti ripongono le merci, smontano gli stand: i cespi d’insalata e la frutta tornano nelle loro cassette, tutto impilato nei furgoni; le file di bestseller ingialliti riempiono a ritmo serrato uno scatolone dopo l’altro. Il mercato si sta svuotando, pronto a sparire per ricomparire la mattina dopo.

Anche noi abbiamo finito, le telecamere abbassate, mi pare nel sollievo generale. Qui non tutti amano essere ripresi: una ritrosia che viene forse da lontano, da altre tradizioni – o semplicemente, si preferisce restare in incognito.

Ci rilassiamo, diventiamo dei clienti come gli altri, che gironzolano tra i pochi tavoli rimasti. Gli oggetti stridono contro gli edifici che fanno da sfondo, appartamenti moderni la cui architettura segue il cerchio dello slargo. Ci sono cianfrusaglie in ottone, un lampadario, delle porcellane di poco conto, tazzine, posate – cose datate, come se ne trovano nelle case dei nonni, in campagna più che in città. Un ragazzo franco-algerino governa questo bric-à-brac, che certo appartiene a un’abitazione dismessa. Una famiglia che ha traslocato, e si è disfatta di un po’ di roba. Una casa che è stata venduta, e prima è stata sgombrata. Tra il vecchiume attirano l’attenzione due piccoli contenitori di plastica più recenti. “Sudano”: il sole è caldo per essere aprile e si è formata della condensa. D’un tratto mi sembra che il contenuto possa guastarsi così: non so nulla di come si mantengano le diapositive; mi viene il dubbio che la pellicola potrebbe rovinarsi, i colori virare. In quel momento non penso che «le diapositive hanno bisogno di una forte luce per prendere vita» (Mary Warner Marien, 100 idee che hanno illuminato la fotografia, trad. it. Gabriella Gregori e Silvia Savojni, Logos 2012), e che anzi forse stanno inviando dalla bancarella segnali d’esistenza.

Sia come sia, decido di comprare. Costano solo pochi euro. Il ragazzo però non sa di più, da chi vengano, da dove. Ora ho in mano un paio d’anni della vita di qualcuno, in due scatole.

Si vede soprattutto il Natale del 1966: lo dichiara la didascalia a biro, nello stretto spazio del cartoncino. Ed eccoli, i creatori e primi destinatari di queste immagini: davanti ai tipici addobbi, l’albero finto, il presepe, la carta da regalo stropicciata addosso al muro. Si riesce a ricostruire una genealogia, anche se non tutto è chiaro: una nonna, un padre, una figlia, dei nipoti – ma loro, figli di chi? In ogni caso, una “buona famiglia” borghese di Francia che qui, come in un qualsiasi album di famiglia che si rispetti, immortala le proprie feste, le riunioni gioiose, i compleanni con tanto di torta e bottiglia stappata. Si può anche provare a seguirli nel tempo, per qualche Natale appunto o Pasqua: le scatole contengono abbastanza.

Altre diapositive ci dicono qualcosa di più: delle loro passioni, del loro mestiere. Il padre, ad esempio, è dentista: fa un curioso effetto vederlo in posa, in camice, accanto alla sedia dello studio. In un quadratino compare pure un’anziana cliente, seduta: le teste canute, le pareti, i bracci dei macchinari, i vestiti, tutto bianco. A risaltare è sempre il volto di lui: le guance piene, il viso rotondo, di una giovialità compiaciuta. Altrove va in scena in “abiti civili”, giacca e una cravatta rosso brillante che esalta le proprietà della pellicola Ektachrome, la sorella della celebre Kodachrome,

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