Guardare le rovine di un edificio, o di una città intera, e fotografarle, è una situazione che può essere legata a due esperienze umane diametralmente opposte, ma allo stesso tempo collegate: il turismo e il conflitto. In altre parole, l’esperienza che l’uomo può fare delle rovine urbane varia sensibilmente se viene vissuta in tempo di pace o in tempo di guerra.
La vera grande differenza va forse individuata nel termine contiguo a quello di “rovine”, ovvero nel termine “macerie”, come ha già fatto Marc Augé nel breve saggio Rovine e macerie. Il senso del tempo, in cui il concetto di rovina viene accompagnato da quelli di “abbandono”, “viaggio”, “ricordo”, “paesaggio”. Le rovine, in questo senso, possono sfuggire a una semantica necessariamente tragica, e lasciano uno spazio per essere viste da varie angolazioni. Come esempio di sospensione del tempo, di frammento di un passato che ci viene restituito incompleto, la rovina può, ora, essere parte di un nuovo paesaggio, non più totalmente popolato dalla natura, e dunque anch’esso trasformato. Sebbene non ci si accosti più, come invece accadeva in età romantica, al tema delle rovine come emblema del sentimento malinconico e in continua ricerca del wanderer, del viandante errabondo nelle strade di un mondo che vuole che gli appartenga finalmente nel suo totale mistero, il fotografo sente ancora oggi il bisogno di dialogare comunque con l’elemento del frammento architettonico.
Le macerie, d’altro canto, possono essere considerate la più brutale forma di riduzione delle rovine. Anche nelle accezioni più metaforiche, a ben guardare, nel termine “macerie” esiste una condizione di rottura inconfutabile, di lacerazione senza rimedio di qualcosa che era stato intero e abitabile. Talvolta lo si sente accostato addirittura al corpo (“ecco le mie macerie”, “sono solo più macerie”), a indicare lo stato presente di una deturpazione percepita del proprio aspetto.
Se da un lato il destino di una rovina può essere quello del restauro e della valorizzazione, quello delle macerie non può che essere il loro smaltimento per dare vita a un cantiere e ricostruire da zero. Dalle rovine nei Paesi affacciati sul Mediterraneo immortalate da Josef Koudelka nel lavoro Radici, a quelle degli edifici sventrati di Beirut fotografati da Gabriele Basilico a seguito del violento conflitto libanese, nel 1991, la loro visione cambia completamente. Se i frammenti di colonne
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