Ogni volta che i media annunciano una nuova guerra, riemerge in noi un terrore tra l’atavico e l’infantile che ci riempie la testa di interrogativi a cui ingenuamente speriamo di ricevere risposte certe, comprensibili e soprattutto rassicuranti.

Il titolo dell’ultimo saggio di Frédéric Gros, Perché la guerra?, Edizioni Nottetempo, sembra proprio la domanda di un bambino, di quelle che riducono all’osso anche le questioni più complesse come solo le menti incontaminate sono in grado di fare. 

Si ha la sensazione che l’autore in qualche modo voglia correre in aiuto di quel bambino interiore, dargli una mano a orientarsi concettualmente in mezzo a un bombardamento di notizie spesso contraddittorie. Il libro è scritto a ridosso dell’esacerbarsi della questione russo-ucraina – nonostante nell’intervista introduttiva di Raffaele Alberto Ventura, Gros parli anche dei più recenti e tragici fatti di Gaza –, ma le guerre in corso sono per lui solo il punto di partenza per un approccio filosofico (e a tratti sociologico) che trascende la politica e la geopolitica per osservare la Storia dall’alto, analizzando le eterne dinamiche che pongono uno contro l’altro diversi leader, popoli, culture. 

Attraverso sentieri già tracciati da pensatori di ogni tempo, da Platone a Foucault, passando per Clausewitz, Hegel, Nietzsche e tanti altri, Gros ci propone una classificazione delle guerre, analizzando tanto il casus belli dichiarato quanto le motivazioni sottese. Tra i modelli su cui insiste particolarmente c’è la cosiddetta “guerra giusta”, quella presentata non come un tentativo di espansione o espressione di interessi economici e politici, ma che almeno nella narrazione fatta dai Paesi coinvolti nasce da un imperativo morale intriso di manicheismo,

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