L’estate del 1984, la sociologa americana Carol Cohn si trova a partecipare assieme ad altri quarantotto docenti universitari a un workshop estivo sui temi delle armi nucleari, della dottrina strategica e del controllo degli armamenti. Questo corso, tenuto da eminenti intellettuali della difesa, principalmente uomini, si proponeva di spiegare come il concetto di deterrenza giustificasse il possesso di un arsenale di armamenti che avrebbe contribuito a prevenire atti ostili, assicurando così la sicurezza interna. Per varie settimane, Cohn ascolta questi maschi impegnati in discussioni spassionate su come condurre una guerra nucleare e ne rimane morbosamente affascinata. A colpirla non sono tanto le immagini di distruzione nucleare evocate, quanto il fatto che quel linguaggio era pieno di riferimenti più o meno palesi alla sessualità maschile, alla dominazione, al predominio fallico. L’immaginario sessuale è, ovviamente, sempre stato parte del mondo della guerra fin dall’epoca in cui le armi nucleari non erano nemmeno un bagliore negli occhi di un fisico. E soprattutto la guerra è da sempre una faccenda maschile. Questo non significa che le donne sarebbero naturalmente pacifiche e gli uomini propensi al conflitto. Altrimenti non avremmo avuto Caterina la Grande, Margaret Thatcher o Golda Meir. Semplicemente, quando le donne supportano la guerra, lo fanno secondo presupposti, premesse e norme comportamentali già definiti in termini di valori maschili

L’idea che un conflitto possa scaturire dal desiderio di ripristinare una mascolinità nazionale umiliata è un tema ricorrente in molti conflitti contemporanei

Recentemente Carol Gilligan ha sostenuto che la strage compiuta dai militanti di Hamas in Israele il 7 ottobre ha rappresentato una umiliazione della mascolinità israeliana, dell’immagine dei pionieri e del potente esercito nazionale. Secondo la studiosa femminista, quell’attacco è stato percepito come una sorta di vergogna pubblica, e la violenza è emersa come l’unica risposta ritenuta accettabile. L’idea che un evento bellico possa scaturire dal desiderio di ripristinare una mascolinità nazionale umiliata è un tema ricorrente in molti conflitti contemporanei. Secondo alcuni analisti, l’espansionismo imperiale di Putin sembrerebbe derivare proprio da un sentimento personale di umiliazione e inadeguatezza. Si potrebbe argomentare che il leader russo abbia avviato la guerra per riaffermare la propria virilità in risposta all’inganno e all’umiliazione provati per non essersi sentito rispettato dalla diplomazia occidentale. Susan Jeffords spiega come il cinema hollywoodiano degli anni Ottanta abbia sfruttato specifiche rappresentazioni della mascolinità, proprio per costruire un’idea di virilità nazionale, in risposta a diverse sfide culturali e politiche dell’epoca, come la Guerra fredda e la minaccia terroristica. La studiosa americana argomenta che, in questo contesto, l’immagine di una mascolinità muscolare, autoritaria e militarizzata serviva a legittimare la retorica della sicurezza nazionale promossa dall’amministrazione Reagan.

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La logica securitaria è uno degli strumenti più efficaci di affermazione dell’ipermascolinità, ci spiega la filosofa politica Iris Marion Young, ossia di una mascolinità caratterizzata da stretta adesione a rigidi ruoli di genere,

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