P. S., dottorando del secondo anno, inizia la sua relazione citando Adorno (seguiranno Lukács, Bachtin e Mazzoni, il finale sarà intonato su un tema di Lacan, cadenze plagali del pensiero scandiranno la coda). È intelligente, brillante e soprattutto un po’ fané: maglietta scolorita senza disegni né loghi, jeans non arrotolati in fondo come vorrebbe la moda, clarks marroni scalcagnate, capelli scomposti (Ippolito agli occhi di Fedra, se ci fidiamo di Ovidio), occhiali di tartaruga (questi, invece, alla moda: sono gli stessi miei). Per la sua età, anche se forse non per essere un dottorando, è un anticonformista: non ha la barba, non porta orecchini, almeno a vederlo in t-shirt non sembra tatuato. Studia Tozzi, uno scrittore che mi interessa e che amo, c’è poco da fare, solo a tratti. Le prime citazioni del Powerpoint sono solenni, ultimative. Persino Bachtin, scontornato sulla pagina, circondato di bianco tra per altro innecessarie virgolette, ingigantito sullo schermo alle sue spalle, acquista un tono vagamente terroristico. Siamo alle cose ultime, che però sono arrivate per prime, tutte tradotte in singolari collettivi e in idee da pronunciare con la maiuscola: la Parola, l’Autore, l’Esperienza, il Desiderio, l’Altro – e naturalmente il Romanzo. Niente parole, niente autori, niente esperienze, niente desideri, niente altri – e niente romanzi.

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