«I rumori della città che le notti d’estate entrano dalle finestre aperte nelle stanze di chi non può dormire per il caldo, i rumori veri della città notturna, si fanno udire quando a una certa ora l’anonimo frastuono dei motori dirada e tace, e dal silenzio vengon fuori discreti, nitidi, graduati secondo la distanza, un passo di un nottambulo, il fruscìo della bici d’una guardia notturna, uno smorzato lontano schiamazzo, ed un russare dai piani di sopra, il gemito d’un malato, un vecchio pendolo che continua a battere le ore. Finché comincia all’alba l’orchestra delle sveglie nelle case operaie, e sulle rotaie passa un tram. Così nella notte Marcovaldo, tra la moglie e i bambini che sudavano nel sonno, stava a occhi chiusi ad ascoltare quanto di questo pulviscolo di esili suoni filtrava giù dal selciato del marciapiede per le basse finestrelle, fin in fondo al suo seminterrato».

Questo passaggio dal Marcovaldo di Calvino cita il «pulviscolo di esili suoni» che vuol essere oggetto di questa breve divagazione di fine estate. C’è ovviamente anche il pulviscolo fisico, che negli spiragli di luce crea uno schermo sottile per filtrare una quiete non verbale, una necessaria sospensione in un silenzio opaco. Siccome udito e tatto si incontrano nel punto in cui le più basse frequenze uditive si trasformano in sensazioni tattili – intorno ai 20 hertz –, allora si potrebbe ben dire che udire vuol dire toccare a distanza. E magari viceversa. Il suono è un fenomeno di difficile lettura, porta sempre con sé tracce delle azioni da cui nasce, dei mezzi e degli spazi attraverso cui arriva all’orecchio: come diceva John Cage, «il silenzio non esiste», e la presenza stessa dell’ascoltatore modifica il suono. 

Il tentativo di dare forma fisica alla vibrazione sonora nasce con il fisico tedesco Ernst Chladni (1756-1827),

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