Chi sa solo di metal non sa niente di metal. Ma anche, specularmente, chi non sa niente di heavy metal si perde qualcosa. Il genere musicale outcast per eccellenza, la cui storiografia costituisce una sorta di universo parallelo rispetto a quello comprensivo di tutti gli altri generi della musica leggera rispettabile, ha sviluppato una tradizione endogama di critica iperspecializzata che, in risposta alla ghettizzazione, ha costruito un ricco hortus conclusus sostanzialmente disinteressato a verificare con agenti esterni una validazione del suo significato e della sua rilevanza.

Al di fuori degli addetti ai lavori, non sono però pochi coloro che, operando in diversi campi della conoscenza, celano un cuore metal pronto ad aprirsi – il topos dell’agnizione! – quando si riconoscono tra di loro per un fugace accenno a un vecchio pezzo degli Iron Maiden o un concerto degli AC/DC. Chi non è stato un po’ metallaro da adolescente è senza cuore, parafrasando il detto; ma più interesse riveste chi – spesso tra l’incomprensione dei più – lo è rimasto da adulto, quelli per cui non è stata una fase, quelli che hanno sviluppato un proprio percorso intellettuale senza mai abbandonare né rinnegare la Bestia.

Tra questi si possono certamente annoverare i contributori di Metal Theory (a cura di Claudio Kulesko e Gioele Cima, 2023, pubblicato nella collana Eschaton diretta da Raffaele Alberto Ventura, D Editore): dieci saggi che, dichiaratamente,

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