Qualche mese fa, e per la prima volta in vita mia (accidentammé), mi sono imbattuta nella scrittura di Zośka Papużanka. È capitato a Bolesławiec, una cittadina sovrannaturale della bassa Slesia, dove mi reco ogni trimestre per la cura prescrittami dalla psichiatra berlinese, cura a base di ceramiche dipinte a mano, libri nella lingua di Schulz e pierogi, in proporzioni pantagrueliche.
Stavo lì tra gli scaffali di Empik a far man bassa di novità, perché purtroppo solo queste tengono, quando mi è arrivato in mano un suo libro e, non conoscendola (riaccidentammè), ho chiesto consiglio all’amica di Cracovia che mi aveva raggiunto per la cura congiunta.
La musica era molto alta, le parole erano fuori uso, le ho occhiato un consiglio, un “E questa? Chi è che io non la conosco eppure la copertina mi sembra la più bella copertina del mondo e l’editore è Marginesy e io Marginesy lo adoro, che già uno che si chiama Margini, di nome, o come fai a non volergli bene?”. In risposta avevo ricevuto un’alzata d’occhio più sopracciglio sinistro, che poteva dire “Be’, certo lei è Maradona e fa sempre goal” oppure “Ma che ti aspetti da un personaggio televisivo”, anche se non avrei nemmeno escluso un “Certo quella sesta porzione di pierogi, boni eh, ma potevo evitare”.
Fatto è che Zośka Papużanka è finita nel bottino.
E nulla, la faccio un po’ lunga perché non ho alcuna scusa per non aver mai incontrato prima una scrittrice di tale portata, se non che vivo fuori dal mondo. Perché Zośka Papużanka è una scrittrice notevolissima, un nome enorme e molto ben ingombrante il panorama letterario polacco. Invece io non sapevo chi fosse e in questo me ne stavo a braccetto e alla pari degli editori italiani, che i polacchi non li distinguono dai bulgari o dagli ungheresi.
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