Negli ultimi film Marco Bellocchio ha preso una direzione singolare. Al contrario di quanto accade spesso agli autori in tarda età (una maggiore essenzialità, un’urgenza di comunicare contenuti con un certo disinteresse per le seduzioni formali), il regista ha scatenato una vena affabulatoria, una scioltezza spettacolare, insomma un versante da narratore quasi all’americana, in realtà da sempre presente. Il suo era un cinema “di prosa”, notava Pasolini già all’uscita di Pugni in tasca, ma, aggiungeva, di una prosa mossa, inquieta, “espressionista”. Il suo cinema ha sempre vissuto della tensione tra il racconto e l’improvviso scarto di tono, le aperture visionarie; una tensione che nel periodo ispirato dall’analisi con Massimo Fagioli diventava stridente, vero coacervo di contraddizioni.

Adesso Bellocchio sembra essere a suo modo “risolto”, o quantomeno lascia decantare i suoi temi in affreschi controllati, perfino sontuosi, con un vero piacere di raccontare. E i suoi temi emergono in maniera cosciente ma quasi naturale. Come tutti i registi dal mondo definito, non solo sceglie storie che sente proprie, ma tutto quello che tocca sembra diventare parte del suo mondo. Così la vicenda di Buscetta diventava il conflitto tra un individuo animato dal desiderio (uno per cui “fottere è meglio di comandare”) e un mondo di puro potere, e il tradimento come rivendicazione dell’individualità. E in quella di Moro il conflitto tra ideologie e individuo prendeva corpo tra preti, famiglie, matti.

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