Con un incasso di oltre sei milioni di euro, Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki è l’anime di maggior successo nella storia del box office italiano. E di fronte a un ingente successo globale, anche americano (verrebbe anzi voglia di vedere la versione doppiata da Robert Pattinson, Christian Bale e Willem Dafoe), ci si può chiedere che cosa sia scattato. Sicuramente, rispetto a Si alza il vento (2013) – esplicitamente politico e storicamente collocato, ma di non immediata interpretazione – ha giovato il ritorno al fantastico, innestato ancora una volta in una dimensione di vita famigliare minacciata dalla morte: una linea che parte da Il mio vicino Totoro (1988) e passa per La città incantata (2001). Che sono anche due dei film più amati di un autore che in Italia cominciò a uscire dalla nicchia dei consumatori di cultura giapponese solo quando la Disney distribuì in sala Princess Mononoke (1997) e acquisì, temporaneamente, i diritti del catalogo pregresso. E fu proprio La città incantata, Orso d’oro a Berlino nel 2002, ad avvicinare Miyazaki al pubblico e alla critica generalista, che all’epoca aveva molti pregiudizi contro l’animazione, tanto più se giapponese. 

La cosa curiosa, nel caso di Il ragazzo e l’airone, è che il pubblico sembra avere bellamente ignorato la mediazione di una critica che, questa volta, non sempre è apparsa interessata, e qualche volta ha cercato il pelo nell’uovo. E anche le voci dissonanti sul web (“Non si capisce niente!”) non sembrano avere spaventato un pubblico che magari non ha mai visto anime di proverbiale oscurità come Akira Paprika, ma ormai è stato abituato da tante serie TV alla complicazione narrativa (una complicazione, va detto, a sua volta preparata da decenni di complex storytelling, da Fight Club in poi), e non patisce enigmi, ermetismi, non sequitur e domande senza risposta.

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Di sicuro l’archetipo del viaggio dell’eroe, declinato in chiave di Alice nel paese delle meraviglie, ha fatto da ponte culturale, scavalcando le connotazioni storiche che per lo spettatore giapponese hanno un significato più pressante (l’azione si svolge durante e dopo la seconda guerra mondiale). E hanno reso universalmente accessibile una classica parabola sull’elaborazione del lutto. Un altro appiglio di famigliarità per lo spettatore occidentale è offerto

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