Per riprendere un’antica categoria di Cinema e pubblico di Vittorio Spinazzola, Tár è un “superspettacolo d’autore”. Solo che dai tempi del Gattopardo sono cambiate ovviamente un po’ di cose. 

Superspettacolo, Tár lo è per la durata: 158 minuti. Come i romanzi di ottocento pagine: non si possono non prendere sul serio prodotti così. Size matters. Lo è anche per il budget dichiarato: 35 milioni di dollari che il comune mortale, guardando il film, non capisce dove siano finiti, dato che non ci sono apocalissi digitali (sono finiti in locations, trasporti, affitti di sale da concerto). 

Certo, manca l’autore: perché alzi la mano chi sa chi è Todd Field (quello che aveva vinto a Venezia con Joker? No, quello era Todd Phillips), ricorda il suo In the Bedroom del 2001, o addirittura Little Children del 2006, e nel caso è in grado di dimostrare suggestivi legami con Tár. Ma viviamo nell’epoca dell’autore fluido: autore si diventa da un film all’altro, per la forza dei temi e del budget; e tutti possono essere autori per quindici minuti. 

Poi c’è la confezione: lussuosa e levigata, tipica del cinema da festival che però non vuole esser troppo punitivo. Quindi il montaggio è relativamente pacato, si tollerano inquadrature fisse e campi lunghi inadatti al piccolo schermo, si privilegiano immagini simmetriche e prospettiche che trasmettono ordine e bellezza. Ma non è un film di Albert Serra, e si sta attenti a non infliggere troppo patimento allo spettatore medio abituato ai ritmi ben più serrati di qualunque serie tv.

E poi ci sono i temi: grandi temi, l’arte e il potere nell’epoca della cultura woke e del politically correct. La protagonista Lydia Tár fa il direttore d’orchestra in un mondo di uomini, le sta bene essere chiamata “maestro” e non “maestra”, convive con una coetanea ma le piacciono le ragazze giovani, e forse è responsabile del suicidio di una sua fragile protetta che aveva sedotto e scaricato.

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