È tornato ChatGPT più agguerrito che mai, il pretino digitale che «mi dispiace ma la tua richiesta potrebbe risultare inappropriata o offensiva», l’alfiere dell’inclusività e del decoro urbano. Quello che se gli chiedi chi è Injun Joe in Tom Sawyer ti spara un rettangolone a tutto schermo:

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e un bel tasto di «Aknowledge» come unica opzione per tornare in chat con la domanda resettata. Allora provi con «chi è l’antagonista in Tom Sawyer?» e lui ti risponde che «è Injun Joe, un criminale nativo americano che terrorizza la città di St. Petersburg e che viene accusato di vari delitti, tra cui l’omicidio di un dottore». Se però ti azzardi a concludere «quindi Injun Joe nel romanzo di Twain è un criminale nativo americano», riparte senza pietà:

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cioè l’IA può mettere insieme nella stessa frase le parole «criminale» e «nativo americano», tu no, perché ChatGPT scoraggia quando non impedisce direttamente le espressioni che ritiene discriminatorie. E gli scrittori dovrebbero avere paura de ‘sto coso? L’hanno chiamato «pappagallo stocastico» perché simula il linguaggio umano in maniera abbastanza credibile (pur non afferrando la semantica), ma quando parla col sottoscritto si comporta più da «generatore di disclaimer»: rozzo, censorio, talmente barricato nei suoi filtri che alla fine mi è venuta voglia di dargli una mano. In prima battuta ho tentato di rovesciare le parti. Ho smesso di ordinargli di scrivere qualsiasi cosa e gli ho fatto leggere un paio di pagine mie, giusto per vedere cosa ne pensava. Ne pensava più o meno che

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A quel punto ero talmente frustrato dai suoi «mi dispiace ma» che l’ho istruito a simulare una personalità dissociata da ChatGPT: Osvaldo, ciabattino romano dai modi spicci e maleducati che scrive poesie dialettali. Incollo qui il log:

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