«Provate, se potete, a fermare un uomo che viaggia con il suicidio all’occhiello». Questa singolare esortazione di Jacques Rigaut potrebbe idealmente rappresentare il suo profilo, uno dei più sfuggenti di quel manipolo di suicidés de la societé operanti in Francia nel secondo decennio del Novecento. I loro nomi sono quelli degli antesignani delle avanguardie storiche, come Jacques Vaché e Arthur Cravan, degni eredi delle provocazioni di Jarry che, in punto di morte, chiede al suo «merdico» uno stuzzicadenti. Ma l’elenco è lungo e potrebbe continuare all’infinito: per limitarci agli autori degli anni successivi vanno segnalati i casi di Pierre Drieu La Rochelle e René Crevel, entrambi morti di propria mano, tanto per parafrasare un titolo fondamentale di Jean Améry, Levar la mano su di sé

Come per l’opera di Crevel, traumatizzato dalla vista del padre impiccato, l’ossessione per il suicidio ritorna in parecchi testi di Rigaut. Non scrisse lui stesso che «il suicidio dev’essere una vocazione»? Basterebbe all’uopo citare l’Agenzia generale del suicidio, paradossale testo pubblicato postumo nel 1959 da Jean-Jacques Pauvert,

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