«Non sono mai riuscito a mettere a tacere le mie emozioni, né penso che sia giusto farlo. Pochi sono capaci di restare impassibili di fronte allo spettacolo di ciò che la guerra fa alle persone. Questi sono scenari che dovrebbero, e così fanno, provocare dolore, vergogna e senso di colpa. Alcune immagini portano l’intensità delle emozioni a un livello insopportabile». Non sono parole pronunciate oggi davanti alle immagini della guerra israelo-palestinese, ma quelle di uno dei più celebri fotogiornalisti del nostro tempo, Don McCullin (Londra, 1935), che per tutta la sua lunga carriera – iniziata alla fine degli anni Cinquanta – è stato testimone dei più importanti conflitti della nostra storia: dal Vietnam alla Cambogia, dal Biafra al Congo, dal Libano all’Irlanda del Nord.

Immagini autentiche che, eppure, sembrano arrivare da un altro mondo: la potenza e le atrocità della guerra, di tutte le guerre, sono le stesse che stiamo vivendo oggi a Gaza come a Kiev. Trovarsi però davanti anche solo a una delle fotografie del grande fotoreporter britannico fa riflettere molto più che di fronte al flusso ininterrotto di immagini che in questi mesi passano incessantemente in tv e sui social. 

Forse perché Don McCullin era sempre a pochi metri dalla scena, forse perché viveva la sofferenza ponendosi sempre dalla parte delle vittime o perché il dolore che aveva davanti era qualcosa che conosceva. Soprattutto perché per lui fotografare e documentare era un bisogno profondo e non un modo per spettacolarizzare la sofferenza o per rincorrere il successo.

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© Don McCullin, Courtesy Hamiltons Gallery

A lui è dedicata la grande retrospettiva Don McCullin a Roma (fino al 28 gennaio a Palazzo delle Esposizioni, Roma) curata da Simon Baker e Tim Jefferies insieme allo stesso autore. È la prima sua grande retrospettiva in Italia e la mostra più ampia mai dedicata al fotografo britannico di fama internazionale. Oltre duecentocinquanta fotografie, presentate in sei sezioni: Esordi, Guerra e Conflitti, Immagini documentarie nel Regno Unito e all’estero, Paesaggi e Nature morte, L’Impero romano. 

Non solo guerra e morte, quindi. Ma anche ritratti, paesaggi, trasformazioni sociali, raccontati sempre senza retorica e in modo diretto. Fotografare per lui significa dare una voce a chi non può parlare. Un’ossessione che lo ha spinto a raccontare la vita delle comunità operaie e dei senzatetto – dalla Liverpool dei primi anni Sessanta alla Bradford degli anni Settanta –, una visione completamente opposta a quella della Gran Bretagna dei Beatles e dei movimenti giovanili. Nelle grigie periferie delle città industriali inglesi McCullin si sentiva a casa: è cresciuto a Finsbury Park, un quartiere operaio nel nord di Londra. Ha cercato il contatto con le persone, ridando loro voce e identità: ne sono nati dei ritratti autentici come quello della senzatetto Jane. 

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© Don McCullin, Courtesy Hamiltons Gallery

«Esci per strada» suggeriva ai giovani fotografi che gli chiedevano come si fa a diventare un fotografo di guerra. «Vedere i senzatetto era altrettanto tragico che andare in Africa a coprire alcune delle guerre. Gli esseri umani sanno come soffrire e la sofferenza non è qualcosa che riusciremo ad estirpare».

Nella sua continua ricerca e nel suo ininterrotto vagabondare, McCullin ha sempre indagato la diversità e la forza dei popoli, così come dei paesaggi. In India con le sue grandi feste collettive, in Etiopia meridionale, nelle le tribù dei Karo e dei Surma, nel deserto tra Egitto e Sudan. Ma anche il paesaggio rurale britannico e quello plasmato dalle rovine dell’Impero romano sulle coste del Mediterraneo. 

Il McCullin paesaggista sembra volersi allontanare dalle tragedie e dalla guerra, ma non ci riesce del tutto: anche i paesaggi apparentemente idilliaci sono avvolti da una luce drammatica, in cui la memoria della guerra avvolge ogni cosa.

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© Don McCullin, Courtesy Hamiltons Gallery

E la guerra avvolge anche le fotografie di Boris Mikhailov (Kharkiv, Ucraina, 1938), che dal 1965 ha raccontato, prima, il passato sovietico del suo Paese, poi le disastrose conseguenze della dissoluzione dell’Urss, creando una narrazione fotografica estremamente intrigante e potente, in bilico tra il documentario e il concettuale.

Perché per lui, uno dei più influenti artisti contemporanei viventi, la fotografia ha un potere sovversivo e questo si vede in tutte le opere. Più di ottocento immagini sono esposte nella mostra romana curata da Laurie Hurwitz in collaborazione con Maison Européenne de la Photographie di Parigi, fino al 28 gennaio sempre a Palazzo delle Esposizioni.

Le due esposizioni sono legate da un filo sottile ma estremamente interessante: «McCullin e Mikhailov hanno un approccio completamente diverso alla vita e alla fotografia, ma entrambi hanno lavori fortemente identitari, incentrati sulla quotidianità dei loro territori di appartenenza, in modo sempre autentico. Le foto in mostra aprono una ferita che non si riesce a sanare» spiega Marco Delogu, Presidente di Palaexpo di Roma. 

La guerra in Ucraina non si vede nelle foto di Mikhailov, ma se ne scorge l’origine, il preludio. L’artista ha documentato la società ucraina attraverso un linguaggio unico, fotografie sperimentali che però esplorano sempre temi sociali e politici. Non c’è la perfezione dello scatto, della tecnica. Mikhailov la mette così: «Faccio una fotografia pessima per una pessima realtà». 

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© Boris Mikhailov, by SIAE 2023. Courtesy Boris and Vita Mikhailov

Spesso il grande artista ucraino ha colorato a mano le stampe alla gelatina d’argento. Usa il verde in Green (1991-1993): «È il colore della palude… è il muschio sulla vita sovietica passata». 

In At Dusk (1993) usa il blu, il colore del crepuscolo. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, Mikhailov andava in giro per le strade di Kharkiv con una macchina fotografica dotata di un obiettivo rotante, tenuta all’altezza della vita. Riesce così a portare lo spettatore vicino ai poveri in fila per il cibo o sdraiati a terra. Ma quel blu è anche legato ai traumatici ricordi della sua infanzia. Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il padre era andato via da casa per arruolarsi nell’Armata Rossa e la madre, ebrea, per sfuggire ai nazisti era scappata in treno a Kirov con Boris treenne. L’artista ricorda di essere stato svegliato nel cuore della notte dal suono delle sirene antiaeree: «Il blu, per me, è il colore dell’assedio, della fame e della guerra… Ricordo chiaramente i bombardamenti, le sirene che ululavano e i fasci di luce nel meraviglioso cielo blu scuro. Blu, blu, e poi azzurro…». 

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© Boris Mikhailov, by SIAE 2023. Courtesy Boris and Vita Mikhailov

Usa il rosso in Red (1965-1978), colore potente, simbolo della rivoluzione e del potere sovietico, con l’idea di mostrare fino a che punto la vita quotidiana fosse stata pervasa dall’ideologia comunista. «Le parole rosso e bellezza hanno la medesima radice nella lingua russa. Ma rosso significa anche Rivoluzione, evoca il sangue e la bandiera rossa. Tutti lo associano al comunismo. Solo pochi, però, sanno davvero quanto il rosso abbia permeato le nostre vite».

Esplode il colore anche in Yesterday’s Sandwich (1960-1970), in cui sovrapponendo una diapositiva sull’altra, Mikhailov crea immagini taglienti ed enigmatiche, cariche di simbolismo e messaggi in codice: corpi nudi, gesti, segni, bandiere, carne.

Immagini irriverenti come i nudi della moglie che all’inizio della sua carriera gli erano costate il licenziamento dalla fabbrica in cui lavorava. Sotto costante sorveglianza del Kgb, spesso le sue macchine fotografiche e i rullini venivano distrutti. Normale: le immagini di Mikhailov – sperimentali, graffianti e poetiche – erano decisamente in contrasto con l’iconografia del realismo socialista. 

Scottante, sarcastico, il grande fotografo ucraino prende in giro la retorica sovietica dell’eroe nazionale. In National Hero l’eroe è lui, l’artista stesso: in uniforme militare sovietica, ma con i ricami tradizionali ucraini, con un volto angelico, in netto contrasto con gli ideali di mascolinità del tempo. È un autoritratto semplice, ma estremamente ambiguo, scattato proprio nel 1991, anno della caduta dell’Urss: «Ho pensato che un Paese nuovo dovesse avere un nuovo eroe nazionale. Ho realizzato una serie di autoritratti, come se stessi elaborando nuovi simboli di Stato, dipingendo la foto come se guardassi indietro al contesto della censura sovietica, prendendo in giro il modo in cui la propaganda sovietica rendeva belle situazioni banali».

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© Boris Mikhailov, by SIAE 2023. Courtesy Boris and Vita Mikhailov