Difficile negare che Tiziano Scarpa sia uno degli autori cruciali per interpretare la letteratura italiana degli ultimi trent’anni. A dimostrazione di ciò, mettiamo a fuoco l’esclusiva ossessione che La verità e la biro, appena uscito per Einaudi, insegue per rovesciarla: la ricerca dell’autenticità. La creazione di un’immagine di sé il più possibile priva di mediazioni e radicata nella verità del corpo e dell’esperienza, nel segno di una comunicazione senza equivoci, è il fantasma che tutti i media inseguono: e basta guardarsi un po’ attorno o, in mancanza di voglia, ripiegarsi a scrollare Instagram e Onlyfans sul telefono, per rendersene conto. Se la letteratura più sbrigativa, prolifica e fortunata di oggi si limita a inseguire questo fantasma (facilmente vendibile a un pubblico invaso da un desiderio di “autentico” in libreria, al supermercato, davanti agli schermi), a Scarpa questo non succede mai. La sua è sempre stata, anche al tempo in cui era frainteso come “scrittore cannibale” (pur non comparendo nell’antologia Einaudi del 1996) una letteratura di “retroguardia”, di una serietà disarmante nelle sue trame, nelle discussioni (analitiche e sfiancanti) che costruisce nel dialogo coi suoi critici, perfino nei risvolti osceni o buffi della sua pagina.
Più cerebrale e posato che mai, La verità e la biro sonda le strutture contraddittorie dell’autenticità, e s’impunta sulla sua decostruzione quanto più, nella prima parte del libro, si dilunga a presentarcela (ingannevolmente) come il fine ultimo del suo discorso. A corredo, c’è una promessa che dovrebbe fungere da rivoluzione copernicana del racconto: nell’epilogo, veniamo avvisati, l’autore-protagonista subirà una trasformazione da maschio che è a qualcos’altro.
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