Eccolo qua di nuovo, l’impegno. Se n’è parlato, in questi ultimi tempi, soprattutto per merito di un fortunato saggio di Walter Siti (Contro l’impegno, Rizzoli 2021) che prendeva garbatamente in giro le pose virtuistiche di quegli scrittori che sposano e difendono cause già popolari nella loro nicchia di pubblico, e sembrano scrivere soprattutto per fomentarne l’indignazione. Quello, più che impegno, è vanità, un vizio antico che, detto per inciso, nel discorso corrente andrebbe meglio distinto dalla patologia nota come narcisismo: che è cosa un po’ diversa, e più seria. 

C’era una volta, invece, il sobrio impegno di quelli che studiano, si documentano, i secchioni delle redazioni o gli scrittori freelance che consumano mesi per, poniamo, raccogliere dati e impressioni sulle condizioni degli operai nel nord dell’Inghilterra (Orwell), o su quanto sia difficile sopravvivere col salario minimo nell’America di Clinton (Ehrenreich). C’era, ma c’è ancora, perché è pressappoco questo che fa Daniele Rielli in Il fuoco invisibile, da poco uscito per Rizzoli. Nato a Bolzano, ma pugliese da parte di padre, Rielli comincia a occuparsi della Xylella quasi per fatto personale, perché tra i milioni di ulivi pugliesi contaminati da quel batterio ci sono anche i pochi ulivi della sua famiglia; il nome Xylella lo incontra presto, quando in Italia ancora non se ne parla, «sfogliando il “Quotidiano di Puglia” nei mesi estivi».

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