Ha vinto il Gran Premio della Giuria a Cannes, viene acclamato con toni enfatici e ricattatori (del tipo: se non ti piace, non capisci niente di cinema). Ma La zona d’interessedi Jonathan Glazer non è, come hanno scritto molti, un nuovo modo di affrontare l’Olocausto al cinema. È un film fin troppo semplice che dimostra, piuttosto, quanto sia difficile e forse inutile ogni ricostruzione visiva dell’Olocausto. La grande trovata del film – ispirato, con numerose libertà e omissioni (e meno male!) al romanzo omonimo di Martin Amis – è il fatto di adottare il punto di vista della famiglia del comandante di Auschwitz Rudolf Höss (Christian Friedel, che sfoggia un taglio di capelli da trapper sfigato), la cui linda villetta con giardino («È un paradiso terrestre!», commenta la suocera) si trova a ridosso del muro del campo. Le informazioni sono accuratamente distillate, costruendo una finta suspense: dopo tre minuti di schermo buio con musica illbient e minacciosa (è cinema d’autore, ragazzi! anzi, è cinema sperimentale) vediamo alcuni tedeschi che fanno il bagno in un fiume. Dopo tre o quattro inquadrature vediamo la targa della loro vettura, con la doppia S. Qualche minuto più tardi vediamo il muro del campo e poi, in lontananza, le ciminiere da cui spesso vedremo uscire del fumo. La parola “Auschwitz” viene pronunciata solo dopo quarantacinque minuti. 

A cosa serve tutta questa reticenza? A farci assumere il punto di vista dei carnefici, che per gran parte del tempo sono impegnati in banali attività famigliari. Non sono affatto simpatici, va da sé, e tra Rudolf e la moglie Hedwig (Sandra Hüller, appositamente respingente, in quello che però rischia di diventare un type casting) non c’è alcuna intesa fisica. Ma ogni tanto ci sono episodi inquietanti – per esempio quando arrivano dei vestiti e vengono spartiti tra la servitù: sono stati sottratti alle prigioniere ebree, si intuisce. Hedwig indossa con nonchalance una pelliccia, frutto di un’altra appropriazione indebita. In seguito compaiono dei tecnici che vantano un nuovo sistema per razionalizzare la distruzione dei “pezzi” (Stücke) – così vengono genericamente definiti i prigionieri – nei forni crematori. A un certo punto si passa dai fiori del giardino a uno schermo rosso (Rothko!), con la solita musica minacciosa. Le ceneri degli invisibili forni crematori, inoltre, possono inquinare il fiume, per cui dopo il bagno ci si deve lavare. Ma la morte e l’orrore sono rappresentati solo nel sonoro, le immagini arretrano.

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