Veramente era mio nonno Giannetto a chiamarlo così: Miccheggì, come anche «Tommemicche», storpiatura di Tom Mix. Bisogna capirlo, la sua unica esperienza internazionale era stata la Campagna d’Africa: appena in vista di un drappello di inglesi aveva alzato le mani e si era consegnato – da cui il suo ineffabile soprannome, Giannetto er galera

Nemmeno la prigionia presso gli sgherri della perfida Albione gli aveva scosso i recettori linguistici. All’epoca Giannetto era un marcantonio dai riccioli neri, benedetto dai capricci dell’allele recessivo: un’azzurra fosforescenza negli occhi che lo aveva subito proiettato in veste di beniamino tra le infermiere del campo inglese, stuolo di premurose Florence Nightingale che si davano il cambio per assistere il bel bersagliere italiano, lo rincoglionivano col loro idioma inaccessibile ma in compenso, a sentir lui, facevano dei pompini magistrali.

Quarant’anni dopo, Giannetto ancora non spiccicava una parola d’inglese. Non che con l’italiano se la cavasse meglio. Al mattino lo trovavi seduto a sillabare ad alta voce i titoli del «Messaggero» – che i miei compagni polite della scuola salesiana chiamavano «il giornale delle sguattere» (tutti cultori di teatro e suonatori di pianoforte, i miei compagni della scuola salesiana, con mamme in prima linea nelle attività extrascolastiche, la mia invece lavorava, io ero la sua attività extralavorativa). 

Ad ogni modo, la passione per le cure femminili gliel’aveva fatta passare mia nonna Giulia, un giorno che tornava dal mercato spingendo la Graziella: vede Giannetto che risale la strada sulla sua moto Guzzi, circondato dalle braccia di una bionda con foulard al vento. La sora Giulia prende e gli scaglia la Graziella sotto le ruote. Dopodiché, al grido di «vammi a denunciare» scaccia via la bionda malconcia e si riporta il marito a casa. Frattura di una mano. Niente sedute di psicoanalisi o Maria de Filippi all’epoca: quando provavano a scipparti un uomo, andavi e te lo riprendevi, se eri capace.

Nonostante avesse perduto il favore dell’orizzonte muliebre, o meglio un accesso facile e irresponsabile a quell’orizzonte (e forse proprio in nome di quella privazione), mio nonno adorava Miccheggì. Un paio di volte al mese, anche di più, si alzava dalla poltrona, metteva su la giacca e annunciava:

«Te vedo moscio. Annamo, ché ‘tte compro un Miccheggì».

E me lo comprava. Poi stava lì a guardare come lo vestivo, come gli sistemavo con cura gli accessori, come ci giocavo insieme agli altri Miccheggì.

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