Nel 2001, alla Biennale d’arte di Venezia, il regista armeno-canadese Atom Egoyan e l’artista visivo portoghese Julião Sarmento presentarono un’installazione, Close, che nella sua semplicità condensava bene la condizione in cui noi umani viviamo, non sempre consapevolmente. Si trattava, in sostanza, di un grande schermo su cui veniva proiettato un video che gli spettatori erano costretti a vedere a distanza ravvicinatissima, solo pochi centimetri, con il risultato che la prossimità forzata ingigantiva i dettagli, rendendo incomprensibile l’insieme. 

A Close ho pensato tante volte da allora, e in particolare negli ultimi giorni, mentre leggevo Dolore e furore di Sergio Luzzatto (Einaudi 2023) e ricordavo gli anni tra il 1977 e il 1981 quando, giovane cronista al quotidiano «Il Lavoro» di Genova, mi sono ritrovata a dare notizia di fatti legati alle azioni delle Brigate Rosse. Di quei fatti, e in generale di quanto accadeva allora in città e in Italia, ero quindi una testimone privilegiata, tanto più che frequentavo, ormai fuori corso, la facoltà di Lettere, in quella via Balbi dove l’8 giugno 1976, a poche decine di metri dalle aule dell’università, erano stati uccisi il giudice Francesco Coco e due uomini della sua scorta, Giovanni Saponara e Antioco Deiana – i primi omicidi programmati nella storia delle BR. 

«Dove mai le Brigate Rosse avrebbero potuto varcare il loro Rubicone di sangue, se non a Genova e se non in via Balbi? Dove, se non in quella strada dei destini incrociati?» si chiede oggi Luzzatto. La domanda è enfatica e retorica (l’intero libro, del resto, è attraversato da un’inclinazione verso il feuilleton: si viene uccisi – anzi “trucidati” – “barbaramente”; l’ira è “funesta” e c’è perfino “il trip dello sparare e dell’uccidere”; né manca in chiusura una rivelazione degna di Dumas), ma la questione è seria. Per lo storico «ricostruire la vicenda delle Brigate Rosse attraverso il prisma di Genova equivale a misurarsi con l’alfa e l’omega dell’intera storia» e proprio la facoltà di Lettere, insieme ad altri ambienti universitari della città, ha avuto un ruolo centrale nell’evoluzione della lotta armata, non solo locale. La contrapposizione, esplicita, è con Rossana Rossanda che nel 2010 ha scritto a Luzzatto rimproverandolo per avere sostenuto in un suo testo «le responsabilità dei professori», laddove – affermava Rossanda con la sua spiccia assertività – «sono state una decina di persone un po’ qualsiasi a mettere in piedi, in una situazione accesa, quella decina di anni di sparatorie». 

Già dal titolo, che riprende una frase della lettera di Rossanda («sono anni pieni di dolore e furore, e varrebbero la pena di una analisi»), le settecento pagine del volume di Luzzatto rispondono, sia pure tardivamente, a quei rimproveri: una sorta di gigantesco fascicolo in cui atti giudiziari, cronache giornalistiche, testimonianze dirette, tendono a concludere che altrove forse no, ma di certo «a Genova, intorno a un chirurgo come Sergio Adamoli, a uno storico come Gianfranco Faina, a un filologo come Enrico Fenzi, le parole sono diventate pietre».

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