Il desiderio di esplorare l’altitudine, di raggiungere cime sempre più elevate è da sempre connaturato all’uomo, una sfida atavica con la natura che possiede una forte componente simbolico-psicologica. Arrampicarsi verso l’alto, in un ambiente che si fa progressivamente più inospitale, rappresenta in qualche modo una fuga dalla società, da una folla in cui la nostra identità tende a disperdersi, verso un isolamento in cui invece ritrovarsi. 

Laddove la città è il luogo della massa, la montagna è dunque la dimensione dell’individuo. A migliaia di metri d’altezza non solo l’aria ma anche l’anima si fa più rarefatta, sbiadiscono le maschere pirandelliane a cui la vita di comunità ci costringe ed emergono gli aspetti più intimi di noi stessi.

Molti appassionati amano ripeterlo: la montagna ci ricongiunge con ciò che siamo veramente. Eppure questo ricongiungersi non è solo bellezza, anzi è un processo difficile in cui entrano in gioco tantissime ombre. Chiunque, messo di fronte a se stesso, finisce per dover fare i conti con i propri fantasmi, con tutto ciò che ha rimosso. E come ogni psicanalista o psicanalizzato sa bene, il centro nevralgico dei nostri traumi e dei conseguenti lati oscuri è la sfera familiare. 

La conca buia di Claudio Morandini e Giù nella valle di Paolo Cognetti, usciti lo scorso ottobre a pochi giorni di distanza – per Edizioni Nottetempo il primo, per Einaudi il secondo –, raccontano pur con toni molto diversi proprio questo aspetto della montagna, il suo essere imperscrutabile custode di un vissuto familiare irrisolto e rimasto lì per anni, come ibernato. Solo scegliendo di “salire” sarà possibile affrontarlo e superarlo.

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