La scrittrice sudcoreana Han Kang ha vinto il Nobel per la lettatura 2024. Riproponiamo in chiaro un pezzo in cui Gilda Policastro, nove mesi fa, stabiliva un parallelo un po’ contrastato fra Kang e un’altra vincitrice del Nobel: Annie Ernaux.

Quando gli allievi dei corsi di scrittura mi domandano se sia lecito fare la tal cosa nella stesura, che so, di un dialogo, o di una qualche descrizione, mi domando a mia volta se non sia sbagliata alle radici, questa idea (pretesa?) di insegnare a scrivere. Dove sono le regole, dove sono gli interdetti? Una volta uno scrittore molto accreditato commise un’inesattezza grammaticale e un amico critico mi disse: da oggi si può anche così, perché l’ha fatto lui. Chi scrive parrebbe invece avere sempre più bisogno di un’idea normativa, e di riposate ma soprattutto riposanti certezze: se in un dialogo voglio inserire un monologo o viceversa, posso farlo solo a condizione che qualcuno mi abbia autorizzato. Ma questo dialogo, poi, ha quale senso, precisamente, a cosa serve, cosa vuole dire? Sembrano problemi secondari, rispetto al placet autoriale (di altri autori, quelli letti e amati). L’altro enorme problema è il pensiero fisso al lettore: qui la domanda (ovviamente mal posta) è “si capisce?”. Ma chi è questo lettore che non capisce, e perché? E soprattutto: perché è una preoccupazione per chi scrive che quel lettore, e magari solo lui o pochi o non molti altri, possa non capire un’ellissi, un’alternanza di voci, uno spostamento di punto di vista, un’ottica straniata, un plurivocalismo, una multifocalità?

Ho deciso che adotterò l’ultimo libro tradotto in Italia di Annie Ernaux come una sorta di contro-manuale, nei prossimi corsi di scrittura che si suol dire “creativa”

Per queste e molte altre ragioni ho deciso che adotterò l’ultimo libro tradotto in Italia di Annie Ernaux come una sorta di contro-manuale, nei prossimi corsi di scrittura che si suol dire “creativa”. Intanto perché Perdersi (questo il titolo, piuttosto parlante e non immediatamente ambiguo) è un diario, e il solo principio più o meno indicato come prescrittivo nelle mie lezioni è che un romanzo non dovrebbe somigliare al nostro diario intimo. Ecco: l’ultimo libro di Ernaux tradotto in Italia (dal solito, ottimo Lorenzo Flabbi) ha precisamente l’aspetto di un diario intimo. Il diario di una passione, anzi di un’ossessione amorosa. Un diario in cui l’autrice si rappresenta come una sottona, si direbbe nell’internet, ovvero una donna del tutto sottomessa al desiderio, e dunque ai capricci dell’oggetto d’amore.  Che non ha un nome, ma solo un’iniziale in tutto il libro, S., e un’età, anzi un paragone: è molto più giovane di lei. Lei chi? La donna che scrive il diario. In realtà è un diario pubblico, dunque dal momento in cui ha una copertina ed è passato per la mediazione editoriale non siamo più autorizzati a pensarlo come diario intimo, ma, volendo, come romanzo, magari con la specifica salvagenere “in forma diaristica”. La storia c’è tutta, ed è la storia di questo amore totalmente carnale, perciò gratuito, non finalizzato. L’amore quintessenziale, ammazzasonno, il pensiero dominante leopardiano, o così viene raccontato. Tutto qui? Sì. Cioè non proprio. Il motivo per cui lo porterò, d’ora in poi, ai miei corsi è che questo libro-romanzo-diario funziona perfettamente come contro-manuale, poiché rovescia dalle fondamenta le domande degli allievi di scrittura, a partire dal punto di vista, che non è mai quello del lettore, ma sempre e solo quello di chi scrive. Queste pagine sono un concentrato di metaletteratura, un’interrogazione costante e coerente il giusto (sempre di diario, formalmente, si tratta, e anche negli archetipi nostrani – vedi per l’appunto lo Zibaldone – la contraddizione e l’antisistema sono la cifra) sull’essenza dello scrivere.

Perdersi” è tanto vario e sorprendente quanto monotona e senza sorprese ne è l’esilissima vicenda

Letto in quest’ottica, Perdersi è tanto vario e sorprendente quanto monotona e senza sorprese ne è l’esilissima vicenda (tanto più che l’autrice ce l’aveva già ammannita nel precedente Passione semplice): l’amore sbilanciato di una donna-scrittrice pluriquarantenne verso un giovane incostante e inafferrabile apparatčik russo. Non mi diffonderò, a differenza di altri, su aspetti di contenuto: lo hanno fatto già in molti, da Bazzi, che ha scomodato addirittura la magia nera come modello di questa specie di rituale di evocazione dell’amato, a Gregoratto, certamente più a fuoco sul tema del fantasma e del desiderio (oltre che della rinuncia di Ernaux alla politica e al femminismo, esplicita nell’espettorazione di una passione escludente). Mi voglio soffermare sugli aspetti metatestuali perché niente di ciò che Ernaux dichiara in Perdersi sulla scrittura potrebbe trovarmi meno d’accordo, pensando soprattutto al mio ruolo di docente di scrittura, appunto, e però proprio per questo è interessante avviarci un ragionamento attorno. Intanto sulla insistita identificazione tra scrittura e vita, che pende direi sempre a favore della seconda: la scrittura è un succedaneo, un tappabuchi, colma un vuoto, quel che conta è il godimento (chi non scrive cosa fa? Come in un verso di Sanguineti beve vino e fa l’amore – Sanguineti, invero, è più diretto, osceno e icastico: chiavare nel sole […] pieni di Saint-Emilion). La scrittura come alternativa (sbiadita e secondaria) alla vita, col suo rovescio, naturalmente: c’è un sentore di morte anzi di suo segnacolo ansiogeno nell’invecchiamento, leitmotiv che attraversa tutto il libro col ribadito sentimento del tempo (l’attesa è il motore quasi immobile di questo microuniverso narrativo), perché si può solo peggiorare incedendo negli anni, la vita accorcia (leopardianamente, di nuovo) le speranze e allunga le memorie (al punto che vivere non sarebbe altro che proiettarsi con gioia anticipatoria verso i momenti in cui gli accadimenti saranno ricordi addolciti, quasi una premonizione o un esercizio prospettico al distacco, la fine intesa come uscita di scena amorosa ma pure biologica).

Non si viene a capo di niente, la buona letteratura è sempre e solo una domanda

Pur vedendo, scrive Ernaux, la stretta interrelazione tra sesso, morte e scrittura, «non riesco a venirne a capo. Districarla in un libro». È a questo che serve la scrittura? A venire a capo del triangolo fatale? Sarebbe già qualcosa. Ma non è così, come sanno tutti i forzati della narrativa (felici quelli che non si sono mai fatti vincere dalla tentazione, probabilmente vivono e hanno meno obblighi di verità – ancora con le parole di Ernaux, «l’obbligo della verità può esserci solo nella scrittura, non nella vita»). Non si viene a capo di niente, la buona letteratura è sempre e solo una domanda. A ogni modo quello che davvero le importa, dichiara a più riprese la donna che scrive questo diario, è esizialmente la vita (concepita come pervicace e torturante passione), non la scrittura. Ma è come il paradosso del mentitore, lo dichiara scrivendo. E rovesciando, secondo convenienza narrativa, le priorità, ma è comunque sempre l’amore a essere paragonato alla scrittura, come «esperienza del vuoto colmato», non il contrario, asintomaticamente.

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© Roberto Ricciuti / Getty Images

Infine: 

Non sono nemmeno più sicura che la libertà esista nella scrittura, mi chiedo anche se quest’ultima non sia il dominio della peggiore alienazione, il luogo in cui ritorna il passato, e con esso gli errori del vissuto. Ma in compenso il risultato, il libro, può funzionare come strumento di libertà per gli altri.

Che è forse la pretesa più immotivata, in un libro come questo, ma anche il momento in cui solo s’intravedono i famigerati altri (o vogliamo chiamarli lettori? Eccoli, giusto alla fine del libro), e sempre però in un’ottica egoriferita, mai per farsene realmente condizionare. In questo userei Ernaux non più come contro-manuale ma come modello indiscusso: secondo voi si è mai interrogata, scrivendo, su come e a chi raccontare quello che racconta? E avrebbe mai chiesto alla sua ipotetica insegnante di scrittura: che succede se scrivo un romanzo che somiglia a un diario (o viceversa) in cui non faccio che refertare un’attesa e un’avvilente, degradante, indecente sottomissione carnale? (Ovviamente non è solo questo).  

Di tutt’altro tono e timbro è “L’ora di greco” di Han Kang (nota per l’exploit editoriale de “La vegetariana”, di alcuni anni fa)

Di tutt’altro tono e timbro è L’ora di greco di Han Kang (nota per l’exploit editoriale de La vegetariana, di alcuni anni fa) che ho scelto in libreria dalla copertina, come il lettore ipotetico, quello che non capisce (non capirebbe) i cambi di focalizzazione. Nella costruzione della vicenda c’è tutto quello che impensierirebbe i miei studenti: oscillazione pronominale, epistolario intradiegetico, due personaggi non tanto a fuoco, se non per i tratti macroscopici, lui sta diventando cieco lei è diventata muta. Quello che lo accomuna al libro di Ernaux è a ben pensarci l’attesa: in Perdersi a scandire il tempo era l’angoscia che precedeva le telefonate, sempre più rade, dell’amato. Qui è il lettore a essere messo in uno stato di attesa: dell’incontro di due personaggi che quasi da subito sappiamo destinati ad amarsi a un certo punto della narrazione. Lo immaginiamo, meglio, perché i loro occhi effettivamente si incontrano, anche se nessuno dei due sente scoccare la scintilla e anzi, c’è un rifiuto gelido da parte di lei nella scena del primo vero contatto, quando pensandola sordomuta il timido professore di greco aveva provato a scusarsi per un’involontaria gaffe usando la lingua dei segni.

Un libro lentissimo, di un’altra noia, però, rispetto a Ernaux: in entrambi i casi vale la pena sobbarcarsela, perché anche nella noia c’è il pathos

Anche in questo romanzo al centro della narrazione c’è la scrittura, e però non come contraltare di vita, bensì come schietto elemento di trama. Sono le parole a condannare al silenzio la protagonista, l’aspetto materico che l’ha ossessionata sin da bambina e che prova a riesumare imparando una lingua totalmente altra (e morta) come il greco antico, nella speranza che intuiamo subito vana di riattivare la favella. L’incontro tra queste due mutilazioni avverrà in un modo ovviamente traumatico, che smentirà (ma solo in parte) l’ovattata atmosfera del racconto, tutto giocato sulle suggestioni visive e sonore (nella coesistenza dei due aspetti che si dà tipicamente nel linguaggio). Lui continuerà a parlarle credendola sorda, lei a scrivergli sul palmo ostinandosi muta, ed è dunque un’impossibilità di relazione quella che si costruisce riga per riga (con sempre più spazi vuoti e margini ampi, incedendo) e si definisce per mancanze esplicite e violente, senza ubbie psicoanalitiche (Lacan è mi pare un paio di volte chiamato in causa in Ernaux) da innamoramenti privilegiati. Anche qui il mondo esterno si vede poco, al netto dei paesaggi, per esigenza di trama, certo: ma quel che se ne intravede taglia la storia come un’avventura randomica dello sguardo, un’avventura disordinata, incoerente, senza didascalie. Un libro lentissimo, di un’altra noia, però, rispetto a Ernaux: in entrambi i casi vale la pena sobbarcarsela, perché anche nella noia c’è il pathos, o lo vogliamo chiamare verità?      

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Annie Ernaux, Perdersi, trad. di Lorenzo Flabbi, L’orma editore, 2023.

Han Kang, L’ora di greco, trad. di Lia Iovenitti, Adelphi, 2023.