L’altro giorno ho fatto un sogno, avevo l’adrenalina a mille. Ero alla National Gallery di Londra, davanti a una Venere tutta nuda, la guardavo intensamente tenendo in pugno un grosso martello e sentivo corrermi in corpo una gran voglia di colpire il vetro che proteggeva la bella dea. Non so perché ma mi sentivo fiero di appartenere anch’io alla schiera degli attivisti climatici che vanno nei musei armati di bombolette spray e imbrattano i vetri a protezione di tele famosissime, per far capire al popolo edonista che se andiamo avanti così l’inquinamento e le trasformazioni climatiche, indotte dai consumi energetici tipici di questa epoca detta Antropocene, ci porteranno alla distruzione del pianeta e alla scomparsa dell’umanità (ma questo – pensavo – è il meno, purché si salvi la natura). 

Mentre sognavo eroiche imprese, mia moglie ha acceso la televisione e il rumore fragoroso di alcune martellate mi ha svegliato di soprassalto: tutto frastornato, ho visto passarmi davanti le immagini di due giovani militanti del movimento Just Stop Oil che cercavano di spaccare il vetro a protezione della Venere di Velázquez, e ho pensato che era la stessa che anch’io avevo preso di mira.

I sogni son desideri? Onestamente non saprei, ma mia moglie mi ha suggerito di rileggere Robert Desnos, che dei sogni ipnotici era maestro. La foto di Desnos, edita in un suo libro di poesie, mi ha guardato con l’aria di chi si prende gioco di un novellino e mi ha parlato: “Osserva bene la scena, e capirai quali erano le ragioni del tuo sogno”. Armato di occhialetti agli infrarossi ho riguardato il filmato televisivo su internet: tutto corrispondeva al mio sogno, tranne il fatto che al posto mio c’erano gli attivisti climatici. Posto che le mie idee non combaciano con quelle dei nemici delle energie fossili – non per altro, ma perché mai e poi mai mi vedrei a distruggere un’opera d’arte –, mi sono domandato che cosa poteva avermi portato nel sogno a premeditare qualcosa cui sono fermamente contrario. Dovevo aver chiuso gli occhi quel battito di ciglia che è bastato a farmi perdere il bandolo dell’enigma.

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Poi, mentre provavo grande delusione per essermi riconfermato un novellino agli occhi del grande poeta amico di Duchamp, all’improvviso tutto mi è stato chiaro: l’ombra molesta, era essa la ragione del mio risentimento verso la dea callipigia. Mi sono sentito molto meglio, perché non potrei mai accettare di essere accusato di misoginia e, soprattutto, perché non rischiavo più di essere incluso fra i seguaci della Cancel Culture: la mia infatti non era una battaglia per il pianeta, ma semplicemente contro i disturbi visivi con cui ci affliggono musei, gallerie, luoghi dove si tengono esposizioni d’arte.

L’ombra molesta è quella striscetta nera, più o meno profonda, talvolta frastagliata, che oscura la parte alta o un lato dei quadri quando si accendono le luci e il visitatore di mostre e musei vorrebbe godersi completamente l’estasi pittorica che gli procura un dipinto, senza essere infastidito da quell’ombra che non può che essere, appunto, molesta. Un disturbo voluto, sebbene indotto dallo stato delle cose, perché non si vuole dare alle opere un’illuminazione migliore (certo più costosa). Ma se la visione è il fine principale di un’esposizione, permanente o temporanea che sia, essa è ciò che va in primis tutelata.

Mi ha molto infastidito qualche settimana fa, mentre mi trovavo al Musée d’Orsay per vedere la mostra, bellissima, dedicata a Van Gogh, dover sopportare quella banda nera superiore che le luci proiettavano su alcune straordinarie nature morte ma anche sui paesaggi. E lo stesso accadeva – cosa davvero ancora più intollerabile – sulle opere astratte di Nicolas de Staël, esposte nella grande retrospettiva al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris. E ancora, questa volta a Milano, visitando la selezionatissima rassegna dei silenziosi dipinti di Morandi, dove l’ombra era come il calare del sipario prima della fine della pièce. Potrei continuare, citando, chessò, qualche ritratto ottocentesco esposto a Ca’ Pesaro, come quello della nobildonna Angela Fassetta di Felice Schiavoni, dove addirittura l’ombra molesta si proietta nella parte alta come una sorta di mantovana nera tutta plissettata. Non c’è mostra o museo dove questo oggi non accada. Che fare? 

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Mi sono ricordato di un singolare dibattito che si tenne su due riviste negli anni Trenta, «Casabella» e «Le Arti». Il trait d’union era il parere polemico di Giuseppe Pagano, il grande architetto sostenitore del razionalismo, direttore della prima rivista già con Edoardo Persico e collaboratore dell’altra, voluta da Bottai, con segretario di redazione Argan. Per farla corta, Pagano sosteneva che la cornice, salvo quando non fosse stata voluta dall’artista e quindi coeva al dipinto, altro non era che un retaggio borghese, un surplus estetico privo di ragioni. I quadri dovevano essere esposti senza cornice, da sostituirsi con un semplice listello protettivo, magari esponendo l’opera a una minima distanza dalla parete, come a sbalzo, così che l’ombra proiettata sul muro diventasse la sua singolare cornice astratta. Ed ebbe l’ardire di mettere in pratica la sua idea curando la grande mostra leonardesca del 1939, che Pagano concepì come emblema di una cultura razionalista dove venivano smontati tutti gli orpelli estetici per dare la possibilità alle opere di comunicare allo spettatore la propria essenza più pura. 

Eccesso di rigore? Il tono dell’ideologia razionalista, per chi conosce le cronache d’arte e d’architettura di Persico, era quello dell’intransigenza; nessuna meraviglia, dunque, per la posizione di Pagano che, dopo la morte di Persico nel 1936, ne aveva impugnato ancor più saldamente il testimone. E allora, perché non rimeditiamo la soluzione dell’architetto istriano, esponendo i dipinti senza cornice e soltanto con un listello a proteggerne i lati? Lo so, già sento i mormorii (costerebbe anche di più di una migliore illuminazione); ma avremmo preso i classici due piccioni con una fava: consentire una visione dell’opera essenziale e bandire finalmente l’ombra molesta. Ma se vi pare troppo, allora pensate che lo spettatore ha diritto a vedere l’opera senza disturbi visivi che lo costringano a immaginare come sarebbe senza la famigerata “banda nera”.