Sguardo fisso in camera, tono di voce greve, le immagini della vittima a circondare lo sfondo dello studio di Rai Uno. Prima di concludere il suo breve monologo, Mara Venier rivolge alla madre di Alessandro Impagnatiello, l’uomo che ha confessato di aver ucciso la compagna Giulia Tramontano, ventinovenne incinta di sette mesi, questa frase: «Sì signora, suo figlio è un mostro». 

Per quanto abbiano creato numerose polemiche, in realtà le parole della conduttrice di Domenica In non dovrebbero scandalizzare più di tanto. Da sempre l’omicidio efferato, specie quando coinvolge le donne, viene spiegato nei termini della mostruosità. Fissando il male nel perimetro della forma deviante, la mostrificazione dell’assassino non ci chiama mai davvero in causa. Ha una funzione rassicurante. Nel migliore dei casi produce una presa di distanza intrisa di riprovazione morale. Nel peggiore dà vita a un ginepraio di sociologismi d’accatto – al punto che, tra le spiegazioni che mi è capitato di ascoltare in televisione, c’era il non aver mai letto Stendhal o il facile accesso alla pornografia. Va così a finire che quando muore una donna per mano di un uomo – e quando la statistica ci dice che questo fenomeno capita con una frequenza preoccupante – si è autorizzati a parlare di tutto tranne che di mascolinità. Anzi, l’invisibilità degli uomini nel discorso sulla violenza finisce per inquadrare l’abuso come una questione meramente femminile: le donne che devono imparare a difendersi, le donne che non sanno comportarsi, le donne che non devono andare all’ultimo appuntamento. La violenza maschile resta un dato di fatto, una fatalità inevitabile da posizionare sullo sfondo.

Eppure, sembrerebbe che in questi ultimi tempi le cose stiano cambiando. Dopo la tragica morte di Giulia i trend di Twitter sono stati dominati per giorni dall’hashtag #losapevamotutte, a dimostrazione di quanto i canovacci con cui il giornalismo continua a raccontare il femminicidio non siano solo sbagliati, ma soprattutto inefficaci. Lo spiega puntualmente la studiosa Molly Dragiewicz: inquadrare questi episodi di cronaca come un mero problema di devianza, sia criminale o patologica, rende difficile per l’opinione pubblica acquisire una comprensione accurata delle dinamiche sistemiche che sottostanno a tali casi. Oscurando le condizioni stesse che producono violenza, questi discorsi rischiano, al contrario, di preservare quelle medesime condizioni.

 

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Invece di spiegare il femminicidio semplicemente come il frutto delle intenzioni di singoli uomini buoni o cattivi, è importante considerarlo come qualcosa che attiene alla costruzione sociale del maschile. Michael Kimmel, uno dei più acclamati studiosi della mascolinità, lo spiega molto bene. Se sono gli uomini a picchiare o uccidere in prevalenza le donne che dicono di amare non è perché sono improvvisamente impazziti. Mostri, individui malati o addirittura portatori di un male innato. La violenza non è mai un atto senza senso, ma ha sempre una funzione riparatrice e autoconservatrice. Le numerose ricerche sui casi di stupro e abuso domestico riferiscono come gli uomini iniziano la violenza quando avvertono la perdita di un potere considerato come un diritto. La mascolinità riguarda l’impermeabilità, l’indipendenza, l’essere una solida quercia. Sentirsi vulnerabili e dipendenti è vissuto come qualcosa di regressivo, perché ricorda probabilmente la dipendenza maschile dalle madri. È probabile, allora, che la violenza sia una sorta di rivincita proprio rispetto a ciò che priva del diritto di sentirsi in potere e in controllo, un modo per riportare la situazione al momento prima che quella sensazione di vulnerabilità e dipendenza fosse avvertita, e il senso di mascolinità così compromesso. Questa idea è confermata dalle testimonianze stesse degli uomini che hanno commesso violenza contro le donne e ritorna, persino, nelle parole dello stesso Impagnatiello: «Ci sto pensando costantemente. La situazione era per me, mi passi il termine, stressante». Se la violenza produce mascolinità, nel senso che nasce anzitutto per preservare il diritto ad avere una propria mascolinità, va da sé che i termini del dibattito quando si parla del femminicidio dovrebbero ruotare proprio attorno all’esperienza del maschile. Un’esperienza che Norman Mailer già negli anni Cinquanta definiva enfaticamente come un vero e proprio lavoro, la lotta senza fine di una vita intera. 

Il nodo centrale è che non abbiamo ancora davvero ben capito come affrontare i termini di questa lotta. Conosciamo bene i quadri teorici entro cui collocare la riflessione sul maschile, o perlomeno ci sono già tanti studi in merito. Manca ancora un modo per veicolare tali concetti nelle discussioni pubbliche che non sia quello moralmente accusatorio che addita i maschi come tutti complici, responsabili o colpevoli. Tale atteggiamento produce molto spesso paura e risentimento negli uomini stessi, spingendoli magari nelle braccia di pensieri facilmente autoassolutori. Si prenda la frase ripetuta spesso in concomitanza con fatti di cronaca come quello di Giulia secondo cui “non dobbiamo insegnare alle donne a difendersi, ma agli uomini a non uccidere”. Il limite di un’affermazione del genere, dal tono quasi biblico, è quello di immaginare il cambiamento maschile esclusivamente come un impegno di carattere etico. Si va ripetendo che i maschi devono prendere coscienza del loro ruolo di oppressori, di difensori dei meccanismi più deleteri del patriarcato. E lo devono fare, perché è la cosa giusta da fare in ogni caso, indipendentemente dal fatto che ciò li faccia stare bene o no. 

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Immaginare il cambiamento maschile come una sorta di crociata contro le ingiustizie sociali può suonare affascinante, ma lascia elusa una domanda: perché un uomo dovrebbe cedere un vantaggio o abbandonare un privilegio, se non è nel suo interesse farlo? Perché dovrebbe sostenere qualcosa che prevede una rinuncia? Forse può essere proficuo seguire il ragionamento che fa Bob Pease, da anni impegnato attivamente nelle campagne per porre fine alla violenza degli uomini contro le donne. Pease ci spiega che è difficile prevedere un cambiamento personale che derivi unicamente da una base etica, in quanto alla lunga può essere visto come una repressione dei propri bisogni e interessi e dunque come una perdita di potere. In maniera più proficua, allora, si potrebbe provare a comprendere come sono costruiti questi stessi interessi e come possono essere eventualmente ricostruiti. Gli uomini hanno interessi oggettivi − e quindi bisogni e desideri − che nascono come conseguenza dell’essere uomini in una società patriarcale. Questo significa che, ogni qual volta gli uomini inizieranno ad avvertire una certa insoddisfazione per sé stessi o qualsiasi aspetto della loro vita, cercheranno di rispondere a tale mancanza di appagamento in modi che possano ripristinare un qualche loro interesse. Il punto è che questi interessi maschili, sorprendentemente, sono molto più limitati di quelli femminili. È dimostrato che attualmente gli uomini hanno una gamma più ristretta di fonti di significato e di identità da cui attingere rispetto alle donne, il che li rende particolarmente vulnerabili se una di queste fonti viene danneggiata. Gli uomini sembrano risentire maggiormente, ad esempio, di un’eventuale perdita del posto di lavoro. Le donne economicamente indipendenti possono prosperare, a prescindere dal fatto che siano o meno mogli. Gli uomini senza moglie, invece, sono spesso un disastro. Rispetto agli uomini sposati, la loro salute è peggiore, hanno tassi di occupazione più bassi e reti sociali più deboli. In un sondaggio del 2016, più uomini che donne hanno classificato l’essere sposati, ora o in futuro, come molto importante. Il compito di una ricostruzione della mascolinità, allora, dovrebbe essere quello di incoraggiare gli uomini a moltiplicare le possibilità di soddisfare i propri desideri e interessi al di là delle opzioni spesso limitate che sono messe a disposizione all’interno dei discorsi patriarcali prevalenti. Per questo non basta dire agli uomini cosa non devono fare. Sono necessarie strategie politiche per creare discorsi e narrazioni che motivino gli uomini a riposizionare sé stessi nella scala dei propri bisogni, così da attivare un cambiamento che non sia percepito come una mera privazione. 

Ora, può sembrare improprio parlare di bisogni maschili di fronte all’ennesimo caso di femminicidio. Certamente l’onda di indignazione che segue a fatti di cronaca così efferati è comprensibile e giustificata. Ma immaginare che il cambiamento possa passare attraverso una sorta di conversione etica rischia di mancare l’obiettivo. Dettare agli uomini i dieci comandamenti del bravo maschio – non uccidere, non picchiare, rispetta le donne e via dicendo –, limitarsi a inchiodarli alle loro responsabilità di fronte ai danni attribuibili al patriarcato non è molto diverso dal dare all’assassino del mostro. Inquadra il tema della violenza di genere come una faccenda di comportamenti moralmente sbagliati e offre un facile assist a reazioni difensive del tipo #notallmen.

Per quanto la violenza di genere meriti una condanna assoluta, trasformare ogni discussione sul tema in un’arringa contro gli uomini non è la strategia più efficace per la sua prevenzione. È difficile che un mutamento provenga dall’instillazione di vergogna e senso di colpa. È più probabile che derivi dalla promessa di sapere che nel cambiamento qualcosa si starà guadagnando. Forse è proprio questo il compito che spetta agli uomini nella sfida all’attuale ordine di genere: modificare la percezione di ciò che costituisce i loro interessi personali – materiali e ideali – al di là di quelli che nascono come conseguenza dell’essere uomini in una società patriarcale, e che producono volontà di dominio, aggressività e violenza di genere. Una tale visione gli permetterà di allontanarsi da un’idea repressiva dell’etica − qualcosa che gli impedisce semplicemente di fare ciò che vogliono − per andare verso una ricostituzione del loro interesse personale come esseri etici. Non colpevoli, complici o mostri, ma maschi eticamente migliori.

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