Questa lezione è stata tenuta il 24 giugno presso la Bottega di narrazione.

Qualche anno fa. Pordenone, nei giorni del festival Pordenonelegge. Con alcuni amici prendiamo uno aperitivo. Scegliamo a caso un bar di corso Vittorio Emanuele; e ci viene proposto lo «spritz letterario». Lo prendiamo. Così scopriamo che lo spritz letterario altro non è che uno spritz col bicchiere un po’ decorato: oliva, cannuccia (ma perché la cannuccia?), bandierina, quelle cose lì; e anche un frammento di una pagina di libro. Facciamo un tre per quattro centimetri.

Giochiamo? Giochiamo. Osservo il frammento che decora il mio bicchiere e dico: be’, questo è un libro Longanesi, probabilmente degli anni Settanta, probabilmente della collana La gaja scienza.

E come fai a dirlo?

Be’, si vede. Il carattere è quello. Il tipo di carta anche. Poi c’è questo modo di usare le virgolette negli intertitoli, così:

» Intertitolo «

che è proprio tipico di Longanesi. Impossibile sbagliarsi.

Osserviamo il testo. Ci sono i nomi di due personaggi. Telefono, Google. In due minuti scoviamo il titolo di un libro che ha quei due personaggi lì, pubblicato da Longanesi negli anni Settanta, e sì, nella collana La gaja scienza. Vinco un secondo spritz.

(No, questo è il bello. Non mi ricordo minimamente che libro fosse. Non ricordo nemmeno se fosse un saggio storico o un romanzo – o un libro di storia romanzata: cosa questa assai compatibile con l’editore, gli anni e la collana).

Quand’è stata l’ultima volta che avete imparato a memoria un brano di prosa? C’è pericolo che non l’abbiate fatto mai. Non l’ho mai fatto nemmeno io, confesso, o almeno non intenzionalmente. Ci sono libri che ho letti così spesso – no, non da saperli a memoria, ma da saper riconoscere una qualunque frase avulsa. Non sono tanti, eh. E non sono neanche tutti capolavori riconosciuti della letteratura. Uno di questi, per dire, è un classico della fantascienza: Dune, di Frank Herbert. (E l’affermazione di poco sopra, che saprei riconoscere una qualunque frase avulsa, mi bullo: vale per tutti i sei volumi).

Ci sono testi che quasi inevitabilmente si imparano a memoria. Per esempio, il sonetto A Zacinto di Foscolo. Conosco dozzine di persone che ne sanno recitare almeno la prima, lunghissima frase (che si prende undici versi su quattordici). E ne conosco ancora di più che ne sanno almeno metà, di quella frase, e si confondono solo per colpa dei due «onde», uno sostantivo e uno pronome relativo:

Che te specchi nell’onde
Del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
Col suo primo sorriso, onde non tacque
Le tue limpide nubi e le tue fronde

eccetera.

Ai miei tempi della scuola c’era ancora qualche professore che faceva imparare a memoria l’«Addio ai monti» o «La madre di Cecilia», dai Promessi sposi (i più perfidi, «La vigna di Renzo»). Ma sì, sono cose che non si fanno più da un pezzo.

Il mandare a memoria è associato di solito a un’idea di meccanizzazione dell’alunno. Bisogna capire, non saper ripetere a pappagallo – si dice. Verissimo. Ma una mia insegnante di disegno, alle scuole medie, ci faceva fare l’esercizio di «copia a memoria». Ci distribuiva la fotocopia – una fotocopia di quei tempi, su carta termica, o almeno così la chiamavamo: puzzolente, e urticava le punte delle dita – di un quadro celebre, che so, la Visitazione di Giotto (dal ciclo della Cappella degli Scrovegni, nella nostra città, Padova). Ci diceva di guardare attentamente. Dopo dieci minuti ritirava le fotocopie, e avevamo un’ora – facevamo due ore di fila, di disegno – per fare la copia a memoria. Poi ridistribuiva le fotocopie e si rideva un sacco, per gli strafalcioni che avevamo fatto.

Ecco, vedete, non sapete guardare. Dovete imparare a guardare. Non dovete dire che non ricordate; dovete dire che non avete guardato bene.

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