Da tempo mi chiedo se l’arte contemporanea, le performance o le installazioni site specific non siano diventate la “spalla” ovvero il cavallo di Troia del Capitale che specula sulle città cementificandole, urbanizzando ettari ed ettari di suolo con interventi che disegnano città nelle città, innalzano torri che sfidano con protervia il cielo e accolgono centinaia di migliaia di persone. L’arte che affianca questi programmi di urbanizzazione è la ciliegina sulla torta che si spartiscono le multinazionali e i lupi del real estate, facendo credere all’opinione pubblica che la bellezza (!?), la sostenibilità, la “vita sana” siano il fine ultimo a cui il capitalismo e la tecnologia collaborano per rendere il mondo più abitabile e migliore. Un’opera che – se non rimanesse un po’ di senso critico in alcuni che osservano i frutti di queste menzogne benaccette dalle maggioranze perché trasformano le città in lunapark del conclamato benessere – potrebbe persino spacciarsi come traguardo superomistico dell’uomo contemporaneo convinto a ricreare da se stesso le condizioni di un nuovo paradiso terrestre. È una convinzione che si è consolidata in me dopo aver visitato la 18ª Biennale di Venezia dedicata all’architettura, il cui filo conduttore, sostanzialmente, è la forza di umanizzazione che l’arte può avere di fronte alla rassegnazione che molti di noi vivono rispetto ai poteri devastanti e snaturanti che il real estate esercita su tante piccole, medie e grandi città del mondo.

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