Eccoti a vent’anni su un treno sobbalzante che taglia in due la Pianura Padana nevosa – il tu-tum tu-tum, te lo ricordi? – a fissare il finestrino in cui vedi riflesso te stesso con le cuffiette in testa, e nel walkman hai una cassetta che ti ha registrato un amico; e lì dentro il nuovo album di un gruppo destinato al culto e guidato da un lamentoso che non fa altro, non ha mai fatto altro che ripetere che l’amore è infelicità, strazio e abbandono e così deve essere, finché morte non ci unisca: «And if a double-decker bus/ Crashes into us/ To die by your side/ Is such a heavenly way to die/ And if a ten ton truck/ Kills the both of us/ To die by your side/ Well, the pleasure, the privilege is mine».

Il treno corre allontanandosi dalla città in cui vive una ragazza, una gatta morta dal cuore di polistirolo che già furiosamente idealizzi e che vorresti amare, se sapessi cosa vuol dire: non sapendolo, ami l’amore, cioè il te stesso che già gode l’assenza, pregusta il dolore di indossarla come un cilicio sotto i vestiti di tutti i giorni, quando andrai a lezione, studierai, andrai al cinema, ai concerti. Sarai lì ma non ci sarai: patirai prefigurandoti il godimento dell’abbandono che ti conferirà la distinzione suprema e finale. Sei con gli amici ma sei solo, e sei malato. 

Se oggi l’attualità si incarica di dirci che il nostro amore è malato, non potrebbe essere l’inattualità a suggerircene le ragioni?

Ammetterete che è come entrare in un campo minato. L’amore è un cane che viene dall’inferno ha scritto il vecchio Buk, mica per niente. Se oggi l’attualità si incarica di dirci che il nostro amore è malato, non potrebbe essere l’inattualità a suggerircene le ragioni? Ho dunque recuperato in biblioteca un libro molto inattuale, L’amore e l’Occidente di Denis De Rougemont, iniziato ottant’anni fa in clima preapocalittico con la Seconda guerra mondiale alle porte e via via integrato fino alla metà dei Cinquanta; opera di grande fortuna ma ormai scivolata via anche dalle bancarelle; saggio creativo pieno di intuizioni e di clamorose forzature eppure ancora vitale, forse proprio perché i se – le ipotesi, le congetture, i passi azzardati su gradini logici pericolanti – nutrono l’immaginazione più delle solide architetture filologiche.

Quando nasce, in Occidente, l’amore così come lo conosciamo?

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