Nel 1996 Ferie d’agosto, il secondo film di Paolo Virzì, fu anticipatore e profetico nel mettere in scena un “Paese reale” diviso in due anche quando è in vacanza a Ventotene. Da una parte una borghesia di sinistra napoletana-milanese, con i suoi miti e i suoi tic, rappresentata con una complice ironia che divulgava il metodo Nanni Moretti (Sandro Molino [Silvio Orlando] che esordisce criticando l’uso di sintagmi come “insalata simpatica”, “succo di frutta geniale” e “film scomodo”). Dall’altra una neoborghesia romana di arricchiti e ignoranti, che nel 1994 di sicuro avevano votato Polo delle libertà: un ceto cafone e razzista, ma su cui lo sguardo del regista non infieriva sadicamente, sottolineando anzi la malinconia, l’insoddisfazione e l’umanità di molti dei suoi rappresentanti (in primis i coniugi Marcello [Piero Natoli] e Marisa [Sabrina Ferilli]). Come in una pochade, ad avvicinare e parzialmente rimescolare i due gruppi erano il sesso e i sentimenti: si componevano nuove, labili coppie, e alla fine lo sguardo di Virzì planava benevolo su questa Italietta, non nascondendone i limiti ma senza calcare la mano sulla condanna moralistica o sulla deformazione grottesca. Una commedia all’italiana? Probabilmente. All’epoca una critica che non aveva ancora fatto i conti con l’atavica repulsione per la commedia fu forse meno generosa di quanto avrebbe potuto e dovuto essere. Se posso dirlo, ricordo che vidi Ferie d’agosto lo stesso giorno in cui uscì Io ballo da sola, quando si vedeva un film alle 20, e alle 22.30 ci si spostava in un altro cinema: in confronto al film di Bertolucci, quello di Virzì mi sembrò un bagno di realtà.
Molti, probabilmente, non se ne accorgeranno se non hanno appena rivisto il prototipo: ma il nuovo film, più che un sequel di quello del 1996, a volte ne sembra un remake-fotocopia
A un sequel di Ferie d’agosto Virzì e il suo cosceneggiatore Francesco Bruni avevano pensato presto, ma lo realizzano solo ora, ventotto anni dopo. Nel frattempo sono cambiate molte cose: Virzì è diventato un Autore, il Paese è sempre più polarizzato e allo sfascio. Ma al di là del sovrapporsi della vita reale alla finzione (gli attori che sono invecchiati, quelli che non ci sono più…), c’è una cosa che colpisce subito in Un altro Ferragosto. Molti, probabilmente, non se ne accorgeranno se non hanno appena rivisto il prototipo: ma il nuovo film, più che un sequel di quello del 1996, a volte ne sembra un remake-fotocopia. Molte situazioni e battute si ripetono praticamente identiche: come il tipico discorso di destra su «Comunisti, fascisti, ancora con queste cose?… Prima di tutto siamo concittadini italiani!», che nel 1996 veniva pronunciato da Ruggero Mazzalupi (Ennio Fantastichini) e nel 2024 dalla new entry Pierluigi Nardi Masciulli (Christian De Sica). Cinismo? Pigrizia creativa? Arte del riciclo? Anche. Ma gli autori devono avere pensato che ciò fosse funzionale a rappresentare un Paese bloccato, che non si evolve se non in peggio.
In realtà tante altre cose sono cambiate. Se nel film del 1996 c’era una certa equanimità nel dividere simpatie e sgradevolezze tra i due schieramenti, nel film di oggi sono quasi tutti stronzi o ridicoli. A volte involontariamente ridicoli (Sandro Molino, rimbambito e sclerotizzato nella celebrazione dei confinati di Ventotene), a volte proprio stronzi, come il figlio di Sandro, il fluido e ricchissimo Altiero (Andrea Carpenzano), inventore di una app usata anche dai narcotrafficanti e autore di loschi maneggi finanziari. Che il personaggio fluido sia di partenza antipatico, è una scelta coraggiosa di sceneggiatura; così come è coraggioso il fatto che i personaggi più benevolmente trattati nello schieramento di destra – l’influencer coatta Sabry (Anna Ferraioli Ravel) e sua madre, la vedova rimbambita Luciana (Paola Tiziana Cruciani) – se ne escano con opinioni agghiaccianti su fascismo e Olocausto, a gelare ogni simpatia. Mentre il fascista tatuato Cesare (Vinicio Marchioni) è ancora più nero e sgradevole del personaggio di Fantastichini, di cui è l’erede. Siamo tutti diventati più cattivi, più miseri, più repellenti? Evidentemente sì, come dice il didascalico monologo apocalittico che pronuncia Emanuela Fanelli alla fine. Se Un altro Ferragosto fosse finito dopo un’ora e mezzo, non ci sarebbe stata difficoltà nel leggerlo in questa chiave, anche senza monologo. Solo che…
E appena “Un altro Ferragosto” esce dalla commedia, stride e si impapocchia
Solo che nel frattempo Virzì è diventato un Autore, si diceva: ha alzato sempre di più il tiro (da La prima cosa bella a La siccità passando per La pazza gioia), e ha cominciato a ibridare la commedia all’italiana delle proprie origini con altre cose, a cominciare dal mélo. E appena Un altro Ferragosto esce dalla commedia, stride e si impapocchia. D’accordo che nelle commedie classiche di Risi e Monicelli spesso moriva qualcuno, ma far morire due personaggi, in Un altro Ferragosto – un padre e una madre, uno per schieramento – è anche troppo. Manco Almodóvar. Non crea pathos, ma solo ridicolo. Così come è irrimediabilmente cringe tutta la sezione in bianco e nero in cui Silvio Orlando morente sogna di trovarsi in una Ventotene in bianco e nero, con Altiero Spinelli, Eugenio Colorni e Sandro Pertini pronti ad andare a fare la Resistenza.
Al contrario di Ferie d’agosto, Un altro Ferragosto non riesce più a parlare del Paese reale. I goffi rimandi al presente, in cui si allude ai politici con perifrasi (“il rottamatore”), con il semplice nome (“Elly”) o con il trucco e parrucco (la politica [Milena Mancini] che vuole convincere Sabry a candidarsi alle elezioni e assomiglia a Giorgia Meloni), tradiscono una sostanziale inadeguatezza di fondo. E il contrasto che mette in scena Virzì, alla fine, non è tanto tra due Italie, ma tra due modi di fare cinema, entrambi fallimentari. Da una parte un cinema autoriale di sinistra, simil-morettiano, parasurreale – un cinema che si illude di essere ironico e sapientemente citazionista (Altiero e il padre morente sulla sedia a rotelle, come Tognazzi e Gassman nell’ultimo episodio dei Mostri), ma è compiaciuto e scollato dal mondo. E dall’altra un cinema di massa e caciarone, un apocrifo cinecocomero post-Neri Parenti (e comunque fuori tempo massimo). Tant’è che Virzì assolda Christian De Sica, gli fa interpretare la scena migliore del film (il ballo con Laura Morante in piano-sequenza, per fortuna non massacrato dal montaggio inutilmente cubista di Jacopo Quadri), ma alla fine non sa bene che cosa fargli fare.
Ferie d’agosto si concludeva con una battuta memorabile pronunciata dalla giovane Sabry: «Stronzo! Ti amo!». Un altro Ferragosto, invece, desinit in piscem. E comunque fa redimere tutti, pure Altiero che all’inizio era così stronzo, e magari anche Cesare. Che fatica rappresentare ’sto Paese.