Da che aveva quindici anni non le servivano più di tre minuti per venire. Le bastava un pensiero, a volte del tutto casuale, un ricordo, un’associazione, un odore. In quel momento si sentiva indurire, gonfiare, non si frenava, lasciava che quel qualcosa le crescesse dentro e poi le bastavano un paio di movimenti sicuri con le dita, talvolta persino senza, a volte riusciva a farlo senza neanche sbottonarsi i pantaloni, senza abbassare le mutande, stringeva le cosce e le muoveva a ritmo, ancora e ancora e ecco. 

Capì abbastanza in fretta che una cosa era farlo da sola, un’altra coi ragazzi. Perché in quel caso non si trattava di sciogliere la tensione più in fretta possibile, allora le piaceva invece prolungare quel momento, le piacevano le carezze che posticipano l’attimo in cui l’eccitazione è così insostenibile da diventare dolce. 

Le piacevano le mani degli altri sulla pelle. Appiccicose, nervose nel cercare, avide. 

Erano goffe, anche, ma vabbè, neanche lei aveva esperienza, è che non c’era a chi chiedere allora, e nemmeno nessuno con cui parlarne, erano i tempi prima dei porno che con un clic si aprono gratis su YouTube, si andava avanti alla cieca, a caso, si provava, si sbagliava, si faceva esperienza.

Era il novantasei, forse novantasette, estate, l’erba umida, il rumore che arrivava dal palco, era in una festa senza fine perché dopo l’ultimo giorno di festival aveva fatto l’autostop ed era andata a un altro. Un qualche reggae sul fiume, una musica nel paesaggio, un certo rainbow gatherings, i tamburi, i falò, il profumo dei pini, dormire in tenda, dormire sotto le stelle. Sopra la testa il cielo enorme e quel ragazzo, che conosceva i nomi di tutte le stelle. Le aveva raccontato la leggenda legata alla costellazione della cintura di Orione, la storia dell’eterno cacciatore innamorato delle Pleiadi, che tende la corda dell’arco e dopo un attimo scocca una freccia nel cosmo. Tre stelle di simile grandezza vicine e cinque più piccole, alla loro destra, a unirle con una matita si disegnava un arco.

Cercale d’inverno nel cielo, di sicuro le trovi. (…)

Non era in grado di stabilire se lui fosse stato il primo, l’aveva solo leccata, tutta e ovunque, ma la lingua era sesso, o non ancora, erano solo carezze innocenti o forse era qualcosa di più serio. No, non lo sapeva. E che senso aveva, poi, se era bello. Vaffanculo le prime volte. Divertiamoci. E non smettere.

Si erano divertiti in quel modo ancora per tre o quattro giorni. E notti. Aveva lasciato che con la lingua le accarezzasse la parte morbida dell’orecchio, era poi sceso nell’incavo del collo, le aveva fatto vibrare i capezzoli induriti, le aveva fatto il solletico sulla pancia e per dessert l’aveva fatta scivolare, calda e morbida, dentro la fica. Lei aveva chiuso gli occhi, aveva stretto le mani dentro i suoi capelli e lo aveva avvicinato a sé, di più, ancora di più. E non smettere.

Dentro un sacco a pelo disordinato, dentro una tenda soffocante, sull’erba umida di rugiada, nei campi di grano, una volta di notte sopra un molo di legno e poi ancora dentro il sacco a pelo disordinato, nella tenda, sull’erba. E non smettere.

Quando si erano separati, lui in direzione opposta, verso la sua città che era dall’altra parte della Polonia, le aveva chiesto il numero di telefono, al che lei aveva risposto di no. Non voglio che tu mi chiami. Se il destino delle stelle ha deciso qualcosa, allora ci incontreremo.

Marta Dzido sa parlare di sesso, ha la lingua per farlo, la fa scivolare via, di frase in frase, è un movimento coordinato, funziona. Ha una lingua che sembra fatta di ghiaccio, non perché sia fredda, al contrario, ma perché è trasparente: le cose che succedono in questo racconto si vedono, è come se non ci fosse mai il filtro della parola, tanto le parole che usa calzano perfettamente la situazione, e in questo è anche fragile, direi quasi troppo delicata, perché è capace di rimanere in equilibrio – ma credo che proprio l’equilibrio sia la chiave del raccontare l’eccitazione, del resto l’eccitazione ha tutto tranne la stabilità, gioca a correre sul filo, arriva come un brivido, raffredda la pelle, poi la scalda, la brucia, stringe lo stomaco perché tutto si muove sempre più in fretta finché si scivola, eccome se si scivola. 

E qui, per esempio, la brutta traduzione anche di una sola parola potrebbe far cadere tutto. È difficile. Per esempio, come tradurre cipka? Fica, figa, topa, passera, vagina?

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