Una dozzina d’anni fa Giulio Ferroni denunciava il «paradosso di una letteratura che si moltiplica e contemporaneamente arretra, assediata dall’impero dei media, dalla vacuità della comunicazione, dalla degradazione del linguaggio e della vita civile». Sono mantra che oggi litaniamo soprattutto rispetto ai social e all’evaporazione critica nei flame di giornata (il premio del giorno, il morto del giorno, la polemica stile vs contenuto del secolo), e naturalmente l’effetto sul campo è lo stesso dell’invito all’ecologia di Ferroni, ignorato così per l’ambiente come per la letteratura: «sottrarre anziché accumulare, ritrovare la passione e la bellezza dell’essenziale. Scrivere di meno, scrivere meglio», come da sinossi di Scritture a perdere (uscito per Laterza alla fine degli anni Zero). Ecco, abbiamo in effetti scelto la via opposta alla decrescita: il gigantismo del mercato editoriale procede incontrollato e forse incontrollabile, perché in assenza di bestseller che tengano su le casse si prova a far cassa con la massa, i dati di vendita peraltro non sono più così scoraggianti, anche perché nella suddetta massa finisce qualunque cosa, dall’ultimo Carrère al fantasy più amato dalle Tiktoker. Una mia laureanda ha sostenuto in sede di discussione che non esista differenza tra il genere fantastico, di nobile ascendenza letteraria, e il fantasy. Di qui a dimostrarlo, ovviamente ce n’è passato e ce ne passerà.

Come fa, chi scrive poesia, a sapere se vale? Lo legge sui giornali? I critici di poesia chi sono? Cosa scrivono e dove scrivono? Sono a casa loro, e scrivono su WhatsApp

Ma l’aspetto più preoccupante, di quell’allarme ignorato, riguarda la poesia. Perché se è comprensibile che ci si voglia, prima o dopo, cimentare col romanzo, magari per tentare il colpaccio editoriale alla Auci o alla De Giovanni (traduzioni e milioni di copie vendute, anche se la critica storce il naso – ma che conta? L’importante è contare le lattine di tonno pardon le copie vendute all’ingrosso, aspirazione, apprendo con raccapriccio, di qualunque scrittore, pure di quelli che hanno giocato fino all’altro ieri alla nicchia e ai carbonari), la poesia davvero non si capisce come possa risultare ancora allettante. Non la legge letteralmente nessuno, e finanche lo Strega, che pure le dedica una nuova sezione del Premio, la tiene lì a bagnomaria, con un regolamento rappezzato in corso d’opera (non si era mai chiarito a nessun’altezza quanti sarebbero stati e annunciati precisamente quando, semifinalisti e finalisti), e un vincitore che verrà proclamato a distanza di mesi, con conseguente, inevitabile perdita di hype (non se n’è parlato quasi niente, in effetti, eppure di cose da dire ce n’erano un mucchio, dal conflitto di interessi di alcuni giurati – Donzelli e Riccardi, in particolare – alla selezione over 70, tutta orientata sulle case editrici maggiori, che com’è noto ai veri appassionati sfornano una poesia stanca, ripetitiva e non influente a nessun livello della discussione teorica sul genere). Ma via i premi, che, come dice la mia analista, sono un gioco sociale e non un attestato di valore. E quindi, come fa, chi scrive poesia, a sapere se vale? Lo legge sui giornali? I critici di poesia chi sono? Cosa scrivono e dove scrivono? Sono a casa loro, e scrivono su WhatsApp, per lo più.

Questo contenuto è visibile ai soli iscritti

Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo.

Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.