Il peso della pelle, di Małgorzata (Margo) Rejmer, è un libro di racconti. Cento ottantuno pagine per dieci racconti. 

Prima di questo, l’autrice aveva scritto due libri di reportage dal notevole valore letterario. Libri per me toccanti, che ho letto piano piano, in silenzio, stando dietro di lei, che in punta di piedi mi accompagnava in una terra straniera – straniera per lei e per me –, ma dove lei evidentemente riusciva a scorgere un sacco di storie. 

Sono stati anche libri molto premiati e, udite udite, persino tradotti in italiano (non chiedetemi come, please). 

Sono corsa a leggerli dopo aver finito questo, però, perché chi scrive così bene nella forma breve del racconto scrive sempre bene. Il che naturalmente non è vero, è persino un pensiero idiota, ma perdonatemelo, è che quando io leggo un libro che mi piace molto mi appassiono a quella scrittura e sono convinta che tutti gli altri libri dell’autore/autrice, se ci sono, siano d’altrettale valore. Che dire, ci spero sempre. 

Questo Peso della pelle è uno di quei volumetti che mi fanno annuire mentre leggo, e poi anche dopo, una volta che l’ho finito, continuo ad annuire, a chiudere gli occhi in approvazione e – immagine che per fortuna vedono soltanto i miei cani – a fare il labbrino di apprezzamento mentre salgo e scendo le scale coi panni in mano. 

Nella quarta di copertina Przemysław Czapliński, un critico letterario di quelli che bisognerebbe clonare, polverizzare il clone e poi diffonderlo nelle farine per il bene della letteratura, dice che «dopo la lettura di questo libro, chi la conosceva per i precedenti può arrivare alla conclusione che l’autrice avesse utilizzato fino ad ora soltanto una metà del proprio talento letterario». E se lo dice lui.

Ora, il reportage è indubbiamente un genere complicato, funziona un po’ come una gabbia, una griglia, perché si muove nella realtà e in qualche modo è alla realtà che tiene imbrigliato il raccontare, non c’è fiction, non si innerva il testo di alcuna ambizione creativo- letteraria, eppure – per quanto messa così sembri roba pallosa – ci sono maestri grandissimi capaci di raccontare di sé (e di me) mentre passeggiano, o vivono, o ricordano luoghi che io non conosco, che non ho mai conosciuto e dove probabilmente non andrò mai, fatto sta che si fanno leggere pagina dopo pagina e hanno la capacità vinavil del migliore giallo. 

Per rimanere alla lingua polacca vengono in mente grandi nomi: Ryszard Kapuściński, naturalmente, ma anche Anna Bikont, Hanna Krall, Wojciech Jagielski ecc. Insomma, solo per dire che Rejmer viene da una terra ben fertile. 

Un racconto è un morso, un boccone di assaggio, o forse anche un panino, fatto quando si ha fame, ma manca il tempo (o la voglia, l’energia) di un pasto completo

Ma allora questo suo ultimo libro che cosa è? Questi racconti sono “articoli” scritti da una geniale giornalista o sono piuttosto il frutto letterario di una scrittrice che ha finalmente preso coraggio e si è lanciata dalla finestra della letteratura senza il paracadute della non-fiction? 

Perché poi ci si potrebbe anche chiedere cosa sia un racconto. Chiedercelo tra di noi lettori, dico, perché se nella conversazione dovesse entrare un qualsiasi editore italiano ecco che sguainerebbe sotto i nostri occhi la spada brillante dell’invendibile/inutile/insignificante, perché i racconti, e questa è una delle loro verità, sono “la cosa che si vende meno”. Meno ancora della poesia? verrebbe da chiedere loro, ma inutilmente, perché loro la poesia manco la prendono in considerazione.

Chiediamocelo tra di noi, quindi, noi che si legge, noi che si comprano i libri. 

Io butterei là che un racconto è un morso, un boccone di assaggio, o forse anche un panino, fatto quando si ha fame, ma manca il tempo (o la voglia, l’energia) di un pasto completo, uno di quelli fatti da seduti, attorno a tavole apparecchiate, che mica scrittore e lettore si possono sempre organizzare per un pranzo di Natale di quattrocento pagine, a volte si fanno piccoli, manca il fiato. 

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Ci si allena, si scalda il fiato, o magari si fa come diceva Alice Munro, che lei, con tre figliole quando mai avrebbe avuto il tempo e la concentrazione per scrivere un romanzo intero. Fate santa subito la Signora Munro. 

È forse qualcosa di meno impegnativo un racconto? 

Perché io ho appena finito questo Il peso della pelle e mi sento di aver assaggiato dieci nuovi sapori, sono entrata in dieci stanze di vita, dieci luoghi, proprio che ce li ho tutti ancora incastrati tra i denti e quasi vorrei togliermeli, estrarli prima che mi si tuffino in gola, per rimetterli sulla scrivania. Così, giusto per poterli guardare di nuovo. Per poterci magari giocare come facevo con i Puffi da bambina. 

Perché i racconti sono bravi a saziare quando la fame è fame di una buona storia, di una buona scrittura

Perché questi racconti sono miniature di storie, sono accenni di sazietà, indicazioni di possibili percorsi e io mi sono abbuffata a leggerli senza riuscire a dare loro tregua, roba che finito l’uno ho cominciato il successivo e poi ancora e ancora, perché Rejmer è talmente brava a raccontare che io masticavo e godevo, e masticavo ancora. 

Perché i racconti, anche i racconti, sono bravi a saziare quando la fame è fame di una buona storia, di una buona scrittura.

Ogni tanto a Rejmer escono di tasca dei personaggi albanesi, perché per anni ha vissuto a Tirana e la città le sta addosso, le sta dentro, che se anche cerca nelle tasche della giacca le chiavi di casa sua, le esce fuori un Enriko, un Dragin, perché quando ti infili dentro un paese poi quello ti risponde e si infila dentro di te. 

E da eterne straniere quali siamo ci capitano anche memorie comuni: uno dei suoi personaggi, in un bar di un paese vicino al mare, per esempio, mi ricorda di quando all’inizio pure io ho usato una lingua non mia, quando ci provavo e bene, benissimo, ricordo lo sguardo contrariato di chi mi smascherava. 

Le scelte di Rejmer di “partire da zero”, in Romania prima e in Albania poi, escono fuori nei luoghi, nei personaggi, perché quando uno scrittore è un armadio di talento basta che passino le stagioni e quel talento esce fuori e si rafforza, e quindi qui, che è prosa e fiction e puro gioco di raccontare storie, ecco che è davvero bravissima il doppio, come dice Czapliński. 

Non sono vite semplici quelle di cui Rejmer ci racconta.

 «Ti picchia spesso?», chiede Taso alzando la testa sopra il disegno. Enriko muove la testa, non dice né sì né no. Spesso, cioè quanto? Ogni giorno? No. A volte basta un primo colpo e Enriko barcolla e cade in terra, allora suo padre smette, poi se ne va, come se si fosse ricordato che ha altre cose, più importanti, da fare. La nonna dice che sotto sotto è una persona buona, ma Enriko pensa che suo padre è pigro. Perde in fretta interesse a picchiare. Non ha voglia di chinarsi, in effetti lo prende a calci di rado, preferisce picchiarlo con la mano, o con la cintura. Lo fa guardandolo in faccia. Come pari tra pari, anche se non sono pari. La nonna gli dice di smetterla, perché uccide il bambino, ma il padre risponde che il bambino ce la fa. Il bambino deve essere forte come lui. Anche lui un giorno picchierà. Deve sapere come si fa. Deve conoscerlo sulla sua pelle.

Nel successivo finisco seduta dentro una macchina, proprio dentro l’abitacolo che è pieno del silenzio dei pensieri di lui, al volante, e di lei, accanto, che ha appena abortito. Lo avrebbero voluto quel figlio, eccome, ma non si poteva, perché l’ecografia che avrebbe dovuto rassicurarli invece aveva detto che il bambino era malato e non sarebbe arrivato a fine gravidanza. Dentro quei pensieri ci sono ancora tutte le visite e tutte le parole dei medici per arrivare a farle interrompere quella gravidanza. A lei, che adesso, durante il viaggio di ritorno si sente vuota, vuota di fronte al ritorno alla vita di prima, al marito che si innervosisce sempre se lei canticchia mentre lava i piatti e alla suocera, invalida, di cui lei si occupa e alla casa, quella casa, e allora quando sono fermi al passaggio a livello vede arrivare il treno e pensa che spingere la macchina là davanti sia la soluzione. 

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Viene in mente l’Europa di cui siamo concittadini, anche se in molti paesi si deve salire in macchina e oltrepassare una frontiera per abortire, perché ad esempio in Polonia non è un diritto della donna. Così come picchiare i bambini: se dessi uno schiaffo a mio figlio per strada qui chiamerebbero la polizia, ma ci sono luoghi dove mi direbbero brava. 

E ancora, le guerre, e un bambino che scappa con la famiglia il giorno in cui sei camion pieni di uomini vestiti di nero portano la distruzione nel suo paese e allora scappano, e si nascondono, lasciano tutto e nemmeno ci pensano perché sperano solo di non morire, soltanto questo conta, solo la vita, e lui nemmeno spera per sé, ma per il nonno, perché si vede che non ce la fa e quando poi finalmente tornano a casa sono felici. Non trovano nulla, non hanno più neanche la casa, tanto meno ci sono le loro cose, persino la macchina con cui erano andati al mare una volta è uno scheletro, sta lì dov’era, ma bruciata, eppure sono felici perché sono vivi e la vita, quando c’è ancora, basta a rendere felici.

La favola è il primo passo verso la letteratura, ma non solo, al pensiero, al farsi compagnia, al parlarsi di un mondo che non esiste se non dentro le parole

In una recensione ho letto che queste sarebbero “favole per adulti”. Mah. E però è anche vero che alle favole ci hanno educato o ci siamo educati da soli. Io, almeno, l’ho fatto poi da grande e da sola, visto che da piccina ero talmente ossessiva da voler sentire solo e soltanto Cappuccetto rosso, e in più, volevo solo sentir parlare del lupo, mi si racconta che se qualcuno mi annoiava con la nonna e la bimba io prendevo la parola e la raccontavo io. Che quando qualcuno mi racconta di me piccina mi chiedo come mai non mi abbiano presa a schiaffi, visto che ancora si poteva. Comunque sia la favola è il primo passo verso la letteratura, ma non solo, direi piuttosto al pensiero, al farsi compagnia, al parlarsi di un mondo che non esiste se non dentro le parole e quindi eccome se esiste, perché le parole sono realtà, sono materia. 

Con le favole si educano i bambini alla grammatica potenziale della fantasia, nelle favole tutto è possibile, basta raccontarlo, no? Tant’è che quando leggevo le favole di Calvino al mio, all’epoca, adorabile figlioletto piccino, mi stupivo che le parti per me assurde e del tutto folli fossero per lui le più banali, le più ovvie. 

E allora che siano questo i racconti? Che siano l’occasione per dare una spolverata ai pensieri della narrativa piccola e primordiale, quella prima di tutto, quella che poi uno la storia se la porta avanti come vuole, o forse la lascia lì, bloccata, come la scia dell’impermeabile di quel tipo che ci è stato seduto accanto per un po’, sul bus, e quando pensavamo di portarcelo dietro fino a destinazione e magari anche di attaccare bottone, lui invece è sceso e ci ha lasciati lì, accanto a una sedia vuota, pronta per un passeggero successivo. Chi lo sa.

Comunque sia non vedo l’ora che Małgorzata Rejmer scriva ancora, ecco.

Małgorzata (Margo) Rejmer, CIĘŻAR SKÓRY (Il peso della pelle), Wydawnictwo Literackie, Cracovia 2023.