Da sempre si racconta che nel maggio del 1974 Jon Landau andò a vedere Bruce Springsteen in concerto. Comprò il biglietto “perché voleva sentirsi giovane”. All’uscita Landau scrisse in una recensione una frase celebre: «Ho visto il futuro del rock ’n’ roll e il suo nome è Bruce Springsteen».

Da maggio a maggio, mezzo secolo dopo Bruce Springsteen, che era il futuro, torna ancora una volta a esibirsi e passa per Roma. Io neanche c’ero cinquant’anni fa. Nel frattempo ho visto Springsteen tante volte, nel frattempo crescendo, cambiando, non riconoscendomi più. Invece Bruce è Bruce, leale con la sua immagine. La trama dell’identità dev’essere questo – dire tautologie senza arrossire.

In questo maggio l’Italia è allagata, invasa dal fango. Scrosci improvvisi, vento, paludi che si aprono senza chiudersi mai. Un territorio malato, straziato dalla coppia di denaro e maltempo. 

Il Circo Massimo ne è una copia in miniatura, ma senza infiltrazioni di cemento. Tutta la sera l’odore di erba bagnata. E la consistenza sotto i piedi della melma, perché ha piovuto sempre.

Ha piovuto sempre e ora, appena prima che il concerto inizi, ecco il solito tramonto intollerabile di Roma fondata nel sangue – il Palatino rosa, l’Aventino violaceo. Dico: “È esattamente qui che è nata: Romolo a destra Remo a sinistra”. Il bambino riccio con l’occhio truccato ascolta e mi fissa la maglietta. Sono al concerto di Bruce Springsteen con una maglietta degli Oasis.

Vede Liam e Noel Gallagher. Chiede chi dei due è Romolo chi Remo.

Chissà come andrà, se resisterà – mi domando. Se Bruce Springsteen mezzo sangue italico figlio di Adele Zerilli sciamano del rock compirà il prodigio, se ad anni settantaquattro farà per l’ennesima volta il miracolo.

© Ernesto Ruscio / Redferns

Per fortuna ho gli anfibi – officio ancora il rito degli anfibi ai concerti, “si va sempre con gli anfibi” ho detto a mia figlia.

Dopo i tornelli, avanzando, ripeto frasi identiche e ricamo profezie: “Vedrai – vedrete”. Ancora non sapete che vuol dire essere a migliaia sopra un prato, il formicolio della massa, l’immersione nella massa che canta. Ma aspettate, pazientate: non si è mai visto un concerto che inizia puntuale.

E invece l’E Street Band entra subito su un palco immane e lungo, mentre affondiamo nella folla e nella melma per cercare un varco. Puntiamo come tutti gli schermi enormi a destra e dietro: l’ideale per le fotografie che ognuno ogni secondo scatta. L’audio è ottuso, imperfetto, poi lo aggiustano. Più di cento euro per la visione telepatica di omini minimi che si muovono piano su un palco lontano.

Lui compare per ultimo e per ultimo se ne andrà. Lui è lo zar, il boss, il posseduto che possiede tutti e, lo sappiamo, li stringe nella mano. Gli scrutiamo le rughe, noi che ci sentiamo suoi figli, controlliamo i muscoli sotto la maglia aderente al petto, verifichiamo distanze tra l’età e la gioventù eterna – somiglia a mio padre: quelle rughe, il naso, la stempiatura. Somiglia a ogni padre.

Attorno a me altri bambini. Conto i membri di sei, forse sette decadi riunite nel fango, tra le tele colorate antipioggia e tante scarpe improbabili, gli idiomi comuni, le bandiere sarde a omologare l’evento, i circoli di abruzzesi che saltano attorno agli zaini. I turisti in equilibrio su legni fradici. Tutti in equilibrio sul fango. Ecco la democrazia in America, saltare nel fango noi ricchi nel sangue di Remo, nel frastuono di schermi lontani.

Non tutti sanno che è una seduta spiritica. Generazioni di ricordi mescolati assieme, di quelli che c’erano a San Siro nell’85, e quegli altri che invece a Genova nel ’99, e ti ricordi Firenze nel 2003, e già al Circo Massimo nel 2016 che non finiva più, cerca su Google la durata: è stato il più lungo di sempre o forse quasi. Lì alla fine, ricordo, avevo cianciato di hybris, di tracotanza, di elisir, di sfida al tempo, di rock tantrico, di grazia e di sudore. Ma allora ero solo e oggi no. Oggi vengo al suo concerto coi figli e con tutti i miei pregiudizi. Vengo come si viene a una lezione. Indico il volto e la voce del maestro. Guardatelo, nello schermo guardalo. Ascoltatelo. 

Che magari fa The Ghost of Tom Joad, l’hai letto Portelli, no? Allora leggiti Sandro Portelli su Tom Joad: «Ovunque ci sia una guardia che picchia qualcuno io ci sarò» – è Steinbeck a scrivere, è Springsteen a cantare. E Portelli ha anche spiegato in che senso Springsteen lavora e suda come tutti e come tutti chiede un compenso. Perché è davvero il portavoce della working class. Ne ha citato una dichiarazione spontanea: un concerto deve “farti venire voglia di muoverti e di arrabbiarti e di innamorarti e di puntare a qualcosa di più alto di te e di razzolare anche in qualcosa di più basso. La job description è questa. È per questo che la gente ti paga”.

Ma questo è solo quello che Springsteen dice di sé. Poi c’è la sua presenza o parousía sulla scena. Sul palco Saint-Bruce e il sacerdote coincidono. Lui è insieme il ripetitore e il canonizzato, sigillato dentro i meccanismi della chiesa che ha fondato. Le sue Mary infinite, le sue Streets. E noi a cantare un’immensa infinita canzone per ore.

© Kevin Mazur / Getty Images

I primi due pezzi scorrono con noi quasi increduli, ma certo vedrai appena indovina un brano. Non ti tratterrai. Ecco No Surrender. Sessantamila scalpiccii nell’erba tra le pozzanghere. Nel parterre c’è gente famosa che balla e nessuno è sotto i sessanta. Accanto a noi galleggiano quelli che non ricordano neanche una parola: nessuna i bambini, che dovrebbero almeno muoversi a ritmo e invece ancora nulla. Due, li sento, dicono forte che sono un gruppo di vecchi che cantano. Dicono che sembra sempre la stessa canzone.

Il frammento appena dopo è Ghosts. Uno degli ultimi brani, che dedica il suo LaLaLa agli spettri della band. A Clarence Clemons che non c’è più. A Danny Federici che non c’è più. Ma il resto rimane: stoico e pesante eppure ancora capace di fuga, dietro il grugno di Little Steven, sui tasti esatti di Roy Bittan.

Nessuna pausa. La scaletta è tirata, asciutta, secca: una prova di potenza sonica e vocale. Alcuni figli ora ballano, altri guardano gli schermi, altri i loro schermi. Condividono foto, stanno semplicemente altrove.

Passano ore. Persistiamo – loro, e noi avanti a loro, a ondeggiare le mani su Bobby Jean. È la matematica pura della persistenza, mentre la luce cala. Basterà, per l’eccesso, la sequenza di Badlands Thunder Road nel buio, prima. Poi, a fari accesi su tutto il Circo – il neon proiettato sul fango – la coppia Born in the Usa/Born to Run. Siamo ancora una volta fuori di noi.

Mi girano un video di me che in quel momento suono la batteria in aria per minuti, mi volto e grido one two three four. Lo riguardo senza audio.

Ricordo che appena dopo l’ho preso in braccio il bambino, poi sulle spalle e lui gridava versi trap pur di cantare. Ho morso forte le labbra. L’ho sollevato ancora più in alto sulle teste della massa poi l’ho voltato. Suono il tuo di corpo come una chitarra durante Glory Days. Ti suono e ti faccio il solletico. Ridi per forza, mentre fatico e sudo anche io come lui sul palco. L’hai capita l’uguaglianza adesso.

Ti prendo sulle spalle, ti faccio roteare: stai godendo, non posso educarti ma batti le mani a tempo e ridi ancora.

Ecco finalmente il ROCK.

Il resto è elusione. Bruce Springsteen che di solito parla a lungo, spiega la genesi delle canzoni, oggi non dice quasi nulla. Niente sull’alluvione, niente sulla guerra. Solo un paio di volte abbozza discorsi preparati coi sottotitoli che arrivano sugli schermi prima ancora che parli. Nei discorsi raccomanda di godersi il mondo e ogni momento – “è un cliché” ammette, “lo so”. 

Ma verso la fine – ci sono le luci tutte accese – ricorda i suoi morti. L’ha già fatto a metà concerto. Quando ha ricordato quello che ha fondato con lui la prima band – di cui è l’unico sopravvissuto, l’ultimo uomo verticale. Lì la festa prende un sapore brusco, di testamento, che si ripete alla fine. Dopo il delirio di Tenth Avenue Freeze-Out, l’ultima canzone: quando Springsteen presenta e poi saluta tutti, li fa uscire dal campo come fosse un allenatore di calcio. Abbraccia solo Jake Clemons.

A quel punto il rock ’n’ roll è passato: resta la solitudine del settuagenario. Sta da solo sul palco con la chitarra acustica, accenna I’ll See You in My Dreams. Chiede di sognare con lui, di rivedere i morti come fantasmi nei sogni.