Tina Modotti è un nome che molti, più o meno appassionati o esperti di fotografia, hanno potuto già sentire più volte, facilmente, però, senza afferrare del tutto i contorni sfuggenti della donna che, nata a Udine sul finire del XIX secolo, nel 1896, si trasferì presto con la famiglia negli Stati Uniti, innamorata del Messico. Fu compagna e allieva di Edward Weston, attivista politica, attrice teatrale e cinematografica. Ebbe un’attività fotografica di appena sette anni, dal 1923 al 1930. Morì in circostanze sospette per arresto cardiaco a quarantasei anni, nel 1942.
Fino al 28 gennaio a Palazzo Roverella, a Rovigo, è visitabile la più grande retrospettiva della fotografa mai realizzata in Italia (circa trecento immagini): Tina Modotti. L’opera, curata da Riccardo Costantini di Cinemazero, grazie al quale sono fruibili alla mostra anche i film muti in cui si vede recitare Tina Modotti.
«Io cerco di produrre non arte, ma oneste fotografie, senza distorsioni o manipolazioni». Fotografa documentarista, non volle mai diventare reporter, rifiutò anzi categoricamente lavori in tal senso (non amava la Leica, diffusa dal 1925, che diede avvio alle macchine di formato 35mm di uso ancora corrente). Non produsse più di settecento immagini nei suoi sette anni di attività: con una macchina a soffietto – una Graflex, di cui in mostra è visibile il modello – e assorbendo i fondamenti tecnici dal compagno Weston. Il Messico che ci restituisce è inconfondibile nelle sue azotee assolate, nelle donne di Tehuantepec che camminano svelte – troppo per i lunghi tempi di posa a cui costringeva la Graflex –, nei pesi trasportati dai lavoratori, nel popolo fatto massa e manifestazioni, nei simboli della lotta rivoluzionaria a cui rimase fedele per tutta la vita.
Come afferma il curatore della mostra, «più che la metafora e il simbolo, è la metonimia che Tina Modotti sviluppò di più nella sua ricerca»: la parte per il tutto. I piedi rovinati dal lavoro di un operaio, chiusi in sandali rotti, le mani di una madre o di un burattinaio suggeriscono l’intera storia a cui appartengono; sono fondamentali dettagli di una comunità più grande, di quei gruppi – agrupaciones – che avrebbe fotografato più tardi, a volte autoritraendosi nelle prime file del popolo in lotta.
Esiste, nel lavoro di Tina Modotti, e nelle decine di immagini che ritraggono uomini, donne e bambini messicani, spesso impegnati in qualche lavoro di fatica, una percezione esatta dell’equilibrio compositivo anche quando i soggetti trasportano enormi ingombri che li sormontano – caschi di banane, lunghe travi di legno, enormi quantità di fieno e paglia legati insieme con corde sottili, o ancora i bambini tenuti in braccio dalle madri, o i sombreros larghi sulle piccole teste dei ragazzini. In questi casi l’occhio fotografico di Modotti ha dovuto abituarsi a proporzioni diverse, imprevedibili, in cui i pesi del lavoro sono da considerare come protesi naturali dell’essere umano che se li issa in spalla, scomparendo, diventando più piccolo rispetto a ciò che sta trasportando.
Dopo essere stata accusata di aver partecipato a un complotto contro il presidente della Repubblica, Tina Modotti, lascia il Messico. Visse allora tra gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e l’Europa, vendendo abbonamenti a riviste politiche, prendendo parte al Soccorso Rosso durante la Guerra civile spagnola, traducendo e scrivendo. E non ritroverà più le condizioni per poter fotografare in altri Paesi, lamentando una luce troppo diversa da quella che l’aveva accolta a Città del Messico.
La fotografia per lei è un documento e un’arma politica con difendere le classi dimenticate, quei «soggetti più semplici e umili» che i giornali dell’epoca ricordavano come suo più profondo interesse.
Allieva, sì, ma insegnante a sua volta, fu inserita perfettamente nello scenario fotografico internazionale. Tra le sue intime conoscenze professionali, oltre a Weston e Lotte Jacobi, ci fu Dorothea Lange, con cui condivise lo studio, imparando a conoscere il suo sguardo attento ai lineamenti delle persone come delle cose e delle architetture.
A Rovigo è anche riproposto l’allestimento dell’unica mostra personale che la celebrò in vita alla Biblioteca Centrale dell’Università nazionale autonoma del Messico (UNAM), nel 1929: curiosamente lo stesso anno dell’esposizione di Stoccarda Film und Foto, vera pietra miliare della storia della fotografia, in cui si riunirono i lavori, suddivisi per Paese di provenienza, degli autori più influenti a livello internazionale – da Man Ray a László Moholy-Nagy passando per Edward Weston, con cui Tina Modotti rimase per lungo tempo ancora in contatto.
«Mi sento sconfitta perché non ho più la forza della tenerezza» scrisse verso la fine della sua esistenza, come a sottolineare che l’unico scopo perseguito nel suo percorso non fu altro che l’approssimarsi all’altro, guardare da vicino i volti di chi è nascosto dal peso della storia, trovare per tutti – dentro e fuori dall’inquadratura – un posto legittimo.
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