Nel 1923, con il Walzer dei Fünf Klavierstücke op. 23, la Suite per pianoforte op. 25 e l’articolo “Metodo di composizione con 12 note imparentate solo le une con le altre”, Schönberg iniziava ufficialmente la composizione con dodici note. A cento anni di distanza ne parliamo a voce con Giacomo Manzoni, tra i maggiori compositori italiani ed esperto conoscitore di Schönberg, di cui ha tradotto gli scritti.

RB: Agli inizi del Novecento, dopo praticamente tre secoli di musica governati dal sistema tonale, si cercavano altre vie, c’era chi riguardava all’antico sistema modale, chi sperimentava con i microtoni, chi con i rumori, chi recuperava motivi popolari e chi provava nuove tecniche. Le trame armoniche si infittivano, le modulazioni divenivano più ardite, gli accordi arrivavano alle tredicesime (con quindi tutte e sette le note di una tonalità) o a includere note estranee diventando agglomerati sonori. In un clima diffuso di crisi e incertezza si tendeva a liberarsi dai principi organizzativi canonici della musica. Prima ancora di teorizzare e praticare la composizione con 12 note, lo stesso Schönberg aveva composto per quindici anni quella che i critici definivano musica atonale, termine che però lui non approvava. 

GM: L’aggettivo atonal in tedesco dà l’idea che il suono sia addirittura spazzato via, sottotesto che rendeva la parola inaccettabile per Schönberg. Mentre fino a Wagner e Strauss la consonanza aveva seguito una serie di regole che si erano formate nei secoli, allargandosi e modificandosi nel tempo, una nuova corrente ruppe gli argini entrando in un periodo che Schönberg chiamava, in maniera a mio parere molto azzeccata, “l’emancipazione della dissonanza”: ogni compositore era libero di introdurre e trattare liberamente la dissonanza, secondo il proprio giudizio espressivo. È stato un periodo estremamente fertile in cui si riconobbero in tanti, la Scuola di Vienna con Berg e Webern ma anche Hindemith, Bartók, Stravinskij in maniera un po’ diversa, Prokofiev ecc. Tutti sentivano un po’ questa esigenza di rinnovare dall’interno la tradizione tonale. Dopodiché Schönberg fu il primo a sentire il bisogno di reintrodurre delle norme, per cui ideò la dodecafonia. 

RB: Tra i primi brani dodecafonici c’è la Suite per pianoforte, forma tipicamente barocca. Forse non intendeva annullare del tutto il passato? 

GM: Schönberg non fu del tutto radicale, da una parte rinnovava radicalmente il linguaggio armonico-melodico ma dall’altra si attenne a forme tipiche del periodo barocco come di quello romantico, dalla suite alla forma-sonata. Sicuramente è una contraddizione (venne poi criticato tempo dopo da Boulez in un articolo che sottolineava questo aspetto). Schönberg non si era sentito di portare fino in fondo la sua rivoluzione. Era cauto per certi aspetti, vi è una linea di legame con la tradizione, che del resto non rinnegò mai. Il processo che portò dalla emancipazione della dissonanza alla dodecafonia è stata una normale evoluzione, come era stato per la musica da Machaut in poi. Schönberg stesso più avanti negli anni si liberò da quel metodo. 

RB: La composizione con dodici note è basata sull’equivalenza dei dodici suoni della scala cromatica (do, do# ecc. fino a si), nell’intenzione di rompere le gerarchie del sistema tonale, che era invece fondato sulla tensione tra una tonica e la sua dominante. La tecnica consiste nello stabilire una sequenza dei dodici suoni che viene ripetuta in quella successione per tutto il brano, ammettendo anche trasposizioni, inversioni e retrogradazioni. Ma forse Schönberg la intendeva come un metodo possibile, senza pretese di imporla come regola? 

GM: Per lui era un fatto del tutto personale, privato, non si sognava che diventasse una scuola universale. Lui sentiva questo bisogno e si era creato quel nuovo modo di costruire la musica. Non ha mai avuto il desiderio di essere un caposcuola, lo è diventato suo malgrado, anche attraverso gli altri, grazie al fatto che quel metodo attraeva una sfilza di compositori in giro per l’Europa e per il mondo: tutti sono passati attraverso quell’esperienza perché appariva molto radicale e importante, necessaria per passare oltre.  

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RB: Schönberg voleva che le sue opere fossero valutate per le loro qualità sonore, non per la tecnica utilizzata. 

GM: Quel che contava era il risultato musicale, la costruzione. Mirava a un risultato di completezza tra razionalità e sentimento. Non ha mai polemizzato contro chi usava la tonalità – e rimanevano la maggioranza –, valutava il risultato musicale. Nessuno, neanche un musicista, ascoltando un pezzo dodecafonico è in grado di seguire gli sviluppi della serie. Si tratta di un dato puramente tecnico che si coglie solamente se si analizza con attenzione una partitura, ma non è quello il senso della dodecafonia. Il senso è di continuare il pensiero musicale, che necessariamente si rinnova nel tempo. 

RB: Qualcuno riconosce nell’equivalenza tra i dodici suoni una qualche forma di utopia, come un sistema socialista.  

GM: È un paragone che non ho mai sentito, ma nel senso dell’uguaglianza tra i suoni può essere una battuta. Nella tonalità, anche in quella più avanzata, c’era sempre un rapporto gerarchico tra i suoni, mentre nella dodecafonia questo aspetto scompare e i suoni hanno tutti il medesimo peso, la medesima importanza. Il fatto dell’uguaglianza è indubitabile. 

RB: La tecnica seriale non sembra eccessivamente rigida nelle opere di alcuni epigoni di Schönberg, come ad esempio nel Concerto per violino di Alban Berg: la musica a volte sembra addirittura favorire una sensazione di tonalità, si riconoscono persino triadi.

GM: Anche in Dallapiccola, che usò molto la dodecafonia (e conobbe Webern di persona). Rimaneva una valutazione di ogni singolo compositore, qualcuno era incuriosito dal trattare la dodecafonia richiamando non tanto un sistema gerarchico tra le note ma quanto meno degli aggregati consonanti, rispetto alla dissonanza più tipica della dodecafonia schönberghiana. Il Concerto per violino di Berg è tipico di questa tendenza. La serie è pensata con gruppi di note come ad esempio sol-sib-re: Berg era molto attratto dal poter usare la dodecafonia con una sensibilità acustico-armonica tradizionale. Webern era esattamente l’opposto, detestava il diatonicismo, cercava i rapporti cromatici già prima di praticare la dodecafonia. 

RB: A cosa si deve il successo della dodecafonia (termine tra l’altro coniato successivamente)? 

GM: Schönberg detestava quel termine – tra l’altro già Hauer aveva inventato una pseudododecafonia, ma elementare, rozza. Parlare  di successo è relativo: la stragrande maggioranza dei compositori continuò per parecchi decenni a fare musica sia secondo il concetto della emancipazione della dissonanza, senza seguire quindi alcun tipo di regole ma solo seguendo il puro istinto musicale, sia con la politonalità, pensiamo ad esempio alla sovrapposizione di più tonalità tipico di un autore come Stravinskij. Tutti probabilmente erano incuriositi dalla dodecafonia ma la praticavano in pochi. La sua diffusione era se non altro un fatto di studio, conoscenza e curiosità. 

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RB: Negli anni trenta negli Stati Uniti Schönberg ha avuto un allievo anomalo, John Cage, la cui ricerca compositiva si è poi sviluppata in tutt’altro modo, centrata sulla durata dei suoni e sui suoni indeterminati invece che sulle altezze e sui rapporti armonici. È però uno dei compositori americani più influenti del secolo.  

GM: La sua notorietà cominciò in Europa dopo la guerra, quando fu invitato a Milano, da Berio o Rognoni, e poi a Darmstadt, dove creò scompiglio. Diventò un fatto alla moda sbaragliare le idee della musica in modo provocatorio, a mio parere poco significativo dal punto di vista dei risultati profondi che dovrebbe produrre la musica. Comunque è indubbio che ebbe seguito, lasciò una traccia.  

RB: Tanti sostengono che Schönberg sia ostico da ascoltare. Persino Glenn Gould, uno degli esecutori più appassionati della sua opera, ha intitolato una puntata di una sua serie televisiva How I stopped Worrying and Learned to Love Arnold Schönberg. Come ascoltare Schönberg? 

GM: Bisogna avere, come per tutta la musica, voglia di ascoltare. Chi non ha mai ascoltato musica fa fatica. Suppongo che se facessimo ascoltare a un abitante delle foreste dell’Amazzonia Mozart o Strauss reagirebbe come di fronte a un rumore. È utile avere un minimo retroterra. È probabile che chi ascolta Schönberg ex abrupto abbia una reazione negativa, ma se un ascoltatore ha una certa abitudine di ascolto della musica della tradizione, senza fermarsi a Brahms, dovrebbe esserne interessato. È questione di essere in grado di seguire l’evoluzione della musica. Serve un po’ di buona volontà. L’ascolto non è un fatto solo passivo ma anche attivo, bisognerebbe cercare di porsi domande, di riascoltare, così la musica nuova può entrare nel bagaglio del pubblico. In questo non siamo aiutati dalle istituzioni, la programmazione delle stagioni dei concerti paiono essere i peggior nemici della musica contemporanea. 

RB: C’è stato un interesse per Schönberg anche nel mondo del jazz, in particolare negli anni Cinquanta e poi con il free jazz, da Charles Mingus, Gunther Schuller e Ornette Coleman a John Coltrane e Eric Dolphy (Miles Mode a.k.a. The red planet1961), Bill Evans (T.T.T. Twelve tone tune, 1971, e T.T.T.T. Twelve tone tune two, 1973) e diversi altri che hanno riportato nei loro brani serie dodecafoniche. Più vicini a noi Giorgio Gaslini (Tempo e relazione, 1957, in cui la dodecafonia si fonde con tecniche contrappuntistiche barocche) e Franco D’Andrea (Serial, 1966, e Modern Art Trio, 1970). Cosa pensa della combinazione di dodecafonia e improvvisazione?  

GM: Non credo che il jazz classico improvvisativo abbia mai potuto utilizzare davvero la dodecafonia. L’esecutore può memorizzare una serie e usarla liberamente, ma non è possibile concepire in senso dodecafonico stretto un pezzo jazz. In certi casi c’è un avvicinamento, come in un blues o una song di tipo jazz, ma scritti. La dodecafonia non può essere intesa sulla scia del jazz, dove l’improvvisazione è tutto. 

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